Gli “startupper del bene” sono di casa al numero 8 di via Sarpi. Il palazzo vecchia Milano, l’intonaco cadente, è il cuore della Chinatown gentrificata; hipster e creativi fanno la spola tra i ristoranti cinesi intorno e la sede di ImpactHub, al pianterreno – «l’hub» per gli amici. Grazie a loro, la zona «è letteralmente rinata» spiegano i residenti. Qui, sei anni fa ha aperto il primo incubatore milanese per innovatori sociali. Giovani imprenditori che, prima del profitto, perseguono il bene comune; la pubblica utilità prima degli utili (ma senza schifarli). Nell’«hub» lavorano in co-working, ognuno al suo progetto, condividono scrivanie e idee ma soprattutto «la vocazione comune all’innovazione sociale» spiega la portavoce di ImpactHub Montserrat Fernandez Bianco. L’obiettivo, come nel no profit, è «produrre un cambiamento positivo nella società» ma «con modelli di business sostenibili e auto-sufficienti, alternativi al Terzo Settore tradizionale».

Cambio di scena: Quarto Oggiaro. All’interno di una ex biblioteca nel 2013 ha aperto FabriQ. Il modello è lo stesso di via Sarpi, ma qui il promotore è il Comune. «La scelta di lavorare in un contesto periferico, un quartiere difficile, ha già di per sé un grande valore sociale», spiega Antonio Dell’Atti della Fondazione Brodolini, che assieme a ImpactHub si è aggiudicata il bando pubblico per la gestione dello spazio nei prossimi 5 anni. Anche qui «la missione è incubare e accelerare progetti d’impresa orientati su categorie deboli -precisa Dell’Atti – disabili, anziani, bambini, o iniziative volte allo sviluppo del territorio».

L’impatto, in entrambi i casi, va al di là delle immediate vicinanze. Ma non troppo. I numeri parlano chiaro: dal 2009 a oggi sono 81 le startup sociali incubate nei due hub, per un totale di 10,5 milioni di euro di investimenti attirati. A queste si aggiungono le cifre di MakeaCube, il terzo incubatore sociale cittadino che, in 5 anni, ha visto nascere una settantina di aziende nella sua se¬de di via Ampère (per 4,8 milioni di investimenti).

È tutto. Molto più che nel resto d’Italia, certo: ma dati alla mano, la sensazione è che «Milano potrebbe fare molto di più, specie sotto il profilo dell’internazionalizzazione» ammette Matteo Boccia di MakeaCube. Al confronto, le solite capitali europee (Londra, Berlino, ma anche Barcellona) ci guardano dall’alto. «Il problema è che, come accade per le startup normali, si fatica ad uscire dalla dimensione locale» continua Boccia. «È una questione di sistema – finanziario, universitario – ma anche di cultura delle imprese».

Le idee, quelle ci sono. E buone. I campi spaziano dalla sanità accessibile (Medicinfamiglia, Ultraspecialisti, LikeHome, per citarne alcune) alla cultura condivisa (Twitteratura, MovieDay), dal fundraising (CharityStars) allospreco alimentare (MyFoody). C’è chi punta sulla moda ecologica (ProgettoQuid), chi sul risparmio energetico (Bioops!, VentiSostenibili, èNostra), chi infine studia strumenti hi-tech a favore dei disabili (Marioway, IntendiMe, Jobmetoo).

La scommessa per tutti è la stessa. «In tempi di finanziamenti pubblici sempre più scarsi il Terzo Settore deve trovare nuove soluzioni, economicamente auto-sufficienti» conclude Boccia. E poi: «E’ quello che le startup low-profit cercano di fare: tenere insieme utili e missione sociale. Ma per riuscirci devono fare rete, pensare in grande ed essere internazionali», il rischio, altrimenti, è che un incubatore non basti (ma nemmeno tre). E che il no profit resti condannato ancora a lungo a “fare da solo”.

(da Corriere Milano, “La città del bene” – 12 giugno 2016)

Davide Illarietti

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