Breve cronaca del convegno “Conviene!”, andato in scena lo scorso 6 novembre a Milano, in Università Cattolica, organizzato da CSRoggi in collaborazione con Altis-Alta Scuola Impresa e Società dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.
Un incontro che ha avuto come protagonisti i rappresentanti di imprese profit e di realtà non profit che hanno raccontato come si sono incontrati, perché hanno deciso di intraprendere un cammino comune e quali sono gli obiettivi sociali prefissati.
Nell’intento di riassumere quanto è stato detto e raccontato lo scorso 6 novembre durante il convegno “Conviene!”, organizzato da CSRoggi in collaborazione con Altis -Altascuola Impresa e Società dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, per una volta è forse il caso di cominciare dalla fine.
In particolare, da quanto è stato detto dal professor Marco Grumo, docente di Economia Aziendale dell’Università Cattolica di Milano, nel suo intervento di chiusura dell’incontro: «In questo contesto sociale emergenziale, caratterizzato da un vero e proprio processo di desertificazione sociale, abbiamo bisogno che mondo profit e mondo non profit si uniscano per creare partnership di qualità, che siano in grado di produrre un impatto netto, durevole e rilevante».
Profit e non profit, fianco a fianco
È proprio questo concetto -leggeremo più avanti come il professor Grumo approfondisce l’argomento – a essere alla base del convegno che ha avuto luogo in Università Cattolica a Milano, un incontro nato dal desiderio di sentire direttamente dalla voce dei protagonisti come nascono e si sviluppano le collaborazioni tra imprese profit e realtà non profit.
Da qui la struttura per certi versi anomala del convegno, basata non su singoli racconti, ma su narrazioni di coppia. Una formula che ha permesso di toccare con mano che cosa significhi creare una partnership di qualità, in grado di generare vantaggi sociali – e non solo, come vedremo -per entrambe le realtà. Un convegno pensato per «cercare di approfondire i temi della responsabilità sociale e della sostenibilità partendo da un diverso punto di vista, quello dei protagonisti considerati in un tutt’uno», ha sottolineato Bruno Calchera, Direttore ed editore di CSRoggi, nella speranza di «far accendere delle lampadine nella testa di chi si occupa di questi argomenti, perché parlare di sostenibilità è un’inderogabile e non rimandabile necessità», gli ha fatto eco il partner di CSRoggi Ugo Canonici.
Conviene a tutti
Il compito di introdurre il convegno è toccato a Vito Moramarco, professore di Politica Economica dell’Università Cattolica e Direttore di Altis. A lui il compito di spiegare perché una buona collaborazione tra profit e non profit conviene a tutti.
Prima di cominciare, una precisazione: «La differenza tra profit e non profit non sta nella presenza o nell’assenza di profitti, come spesso si tende
a dire qui in Italia. Fare profitti è sempre una cosa buona, se non ci fosse il profitto sarebbero davvero guai, perché non ci sarebbe crescita e questo vale anche per le realtà non profit, dove il profitto, anche qui necessario, deve essere reinvestito per lo scopo sociale. Ricordiamoci sempre -ha proseguito il direttore di Altis- che se una non profit non fa profitti, che non necessariamente devono essere solo di natura monetaria, chiude. E la chiusura di una realtà di questo genere ha inevitabilmente una ricaduta negativa sulla società».
Per questo una buona gestione conviene sempre e non c’è niente di strano nel “pensare a un convegno che abbia come protagonisti soggetti che operano a fine di lucro e soggetti non profit. Tra questi due mondi si possono, anzi si devono, creare collaborazioni capaci di portare grandi benefici per la collettività nel suo complesso. Per questo -la conclusione di Moramarco
– una buona collaborazione conviene alle istituzioni costituite a fine di lucro, conviene alle associazioni non profit e conviene alla società intera».
Agenda 2030, non solo per i governi
Non era presente fisicamente al convegno, ma ha voluto mandare un video con il suo intervento. Enrico Giovannini è il portavoce di ASviS, l’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile che «ha l’obiettivo di aiutare la società e l’economia italiana a muoversi verso un sentiero di sviluppo sostenibile coerentemente con gli obiettivi fissati a settembre del 2015 con l’adozione dell’Agenda 2030». Il collante che ha permesso di riunire finora 220 soggetti della società civile italiana – la più grande rete mai realizzata nel nostro Pese in questo settore -, ha sottolineato Giovannini, è proprio «la cooperazione, che è uno dei 17 obiettivi dell’Agenda 2030. È un obiettivo ambizioso, che obbliga ogni realtà a riconoscere l’impossibilità di realizzare l’agenda da soli e perciò, obbliga a cooperare». Questo dimostra che l’Agenda 2030 non riguarda solo i governi ma anche tutte le componenti della società. «Da questo punto di vista -prosegue Giovannini – soltanto un’alleanza completa tra le imprese, i soggetti del Terzo settore, le istituzioni pubbliche a livello centrale e a livello locale con i mezzi di informazione e gli operatori culturali, può veramente aiutare un Paese come l’Italia a fare il salto di qualità necessario, in primo luogo mentale e poi in termini di politiche e in termini di decisioni concrete, anche assunte dalle imprese». Una sfida straordinaria, certo, ma anche difficile da vincere « anche perché spesso la politica, ma anche i media, si occupano di altro. Presi dalle emergenze quotidiane perdono di vista le tante novità che stanno accadendo anche in Italia da questo punto di vista». E allora, conclude il portavoce di ASviS, «è necessario cooperare, non demordere di fronte alle difficoltà e, soprattutto, mostrare le ottime pratiche che oggi già esistono nel nostro Paese per spingere tutti verso un futuro pienamente sostenibile sul piano economico, sociale, ambientale e anche delle istituzioni. L’italia è ricca di capitale sociale, nonostante la crisi. Abbiamo bisogno di usarlo come leva per fare i salti necessari, talvolta supplendo anche alle amministrazioni pubbliche e alle istituzioni».
La collaborazione, un’occasione da non perdere
Quando si parla di collaborazione tra profit e non profit si tende a pensare a qualcosa che favorisce maggiormente il non profit. «In realtà non è così e quanto scaturito da questo convegno lo sta a dimostrare – precisa Laura Ferri, ricercatrice in Economia Aziendale presso l’Università Cattolica e Consulente scientifico del convegno “Conviene!” -. I due attori, pur nella loro diversità, collaborano e creano le condizioni per riuscire a raggiungere realmente i propri obiettivi». Il vantaggio per l’impresa è quello di «creare cultura, riuscire a coinvolgere i collaboratori, sostenere i dipendenti e le loro famiglie, instaurare collaborazioni con gli stakeholder, acquisire nuove conoscenze. Vantaggi che rappresentano un prezioso ritorno in termini di capacità di fare bene il proprio lavoro». Dal canto loro, le organizzazioni non profit «imparano a lavorare secondo logiche che vanno incontro anche al mondo esterno. Attraverso l’impresa con cui creano la partnership riescono ad ampliare l’intervento previsto per i propri beneficiari. L’impresa aiuta dunque a crescere, a dare concretezza all’azione delle ONP e la collaborazione aiuta a raccogliere e a focalizzare energie disperse nel contesto sociale, attorno a un obiettivo comune».
La stessa collaborazione, prosegue Laura Ferri, può inoltre essere vista come un modello di sviluppo spiegabile in quattro punti:
- progettazione comune: soggetti diversi, che però operano nello stesso contesto o che hanno alla base gli stessi valori, mettono in comune impegno, risorse, voglia ed entusiasmo per condividere obiettivi sociali
- spinta all’innovazione: questo nuovo modello di sviluppo spinge a creare nuovi prodotti, nuovi servizi, nuove modalità di coinvolgimento di collaboratori, nuove conoscenze
- messa a sistema delle risorse, dal momento che si basa più sul concetto di integrazione rispetto a quello di mero trasferimento
- efficacia degli interventi: nasce la volontà di utilizzare al meglio le risorse che si hanno a disposizione, di saper raccogliere meglio le risorse disponibili, di riuscire a creare un vero e proprio cambiamento da parte di tutti e due i soggetti.
Perché questo sistema si realizzi, aggiunge la ricercatrice della Cattolica, è necessario che le ONP «riescano a togliere dalla “mente” delle imprese quel vecchio pregiudizio che c’è nei confronti del mondo non profit, spesso visto unicamente come “quelli che vengono a battere cassa” e che “poi, magari, non raggiungono nemmeno l’obiettivo prefissato”». Ed è necessario che le aziende «lavorino sulla sensibilità e sulla cultura interna. E imparino ad aprirsi e a fidarsi delle collaborazione, andando oltre la concezione del semplice trasferimento di risorsa».
Infine, perché tutto il sistema migliori, c’è bisogno dell’intervento di altri soggetti: «L’Università, i media, i comunicatori devono formare e informare per sostenere i quattro temi elencati prima. La prima deve saper creare nei giovani una nuova cultura che poi porteranno nelle imprese o nelle ONP, i secondi hanno il compito di promuovere e far conoscere il ponte che si crea tra questi due mondi, proprio come abbiamo fatto oggi in questo convegno».
Contaminare attraverso l’esempio
E veniamo all’ultimo degli intervento di contorno – come tutti gli altri, un contorno di tutta sostanza -, quello del professor Marco Grumo, da cui siamo partiti nel nostro racconto del convegno “Conviene!”.
«Il tema delle partnership -l’esordio del professor Grumo-, che adesso sembra essere solo di breve periodo, può diventare un grande regolatore della nostra società, per consentirci di avere una welfare society più equilibrata, composta da Stato, impresa e da un privato sociale più forte». Perché questo accada, e qui torniamo al punto di partenza, «dobbiamo però riuscire a distinguere tra partnership di bassa e di alta qualità. E dobbiamo fare in modo che le stesse partnership non siano legate quasi esclusivamente alla grande impresa, come oggi accade: bisogna lavorare per allargare i confini anche alle piccole e medie imprese».
Di fatto oggi, aggiunge Grumo, «viviamo in un contesto emergenziale, dal punto di vista sociale, per cui non è sufficiente fare innovazione, occorre fare protezione sociale. Per fare questo è importante che anche le organizzazioni non profit sappiano fornirsi di identità, imprenditorialità e managerialità differenti, legate a logiche di partnership non standardizzate e non standardizzanti. C’è tanto da fare, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti culturali. Da questo punto di vista il miglior modo di operare è quello di favorire la diffusione di best practices e quindi di “contaminare” attraverso l’esperienza, con l’esempio». Ma che cosa s’intende con “partnership di qualità”? «Sono di qualità le partnership promosse da attori di qualità, fondate su progetti di qualità, che non riguardano semplici attività imitative o istintive, che non corrispondono a iniziative isolate e solitarie, ma che si sforzano di creare reti sul territorio. Devono essere durature, guidate da valori, replicate e replicabili, incrementali – nel senso che partono pian piano e poi si sviluppano – devono essere win-win e devono saper essere best practices per molti e, soprattutto, devono saper generare un impatto economico rilevante per l’azienda e un impatto personale e sociale per l’ONP e per la società intera». Le organizzazioni di qualità, aggiunge Grumo sono «quelle che hanno un disegno strategico solido, investono, non attuano scorciatoie, non sono contro l’uomo, creano valore e responsabilità, hanno alle spalle persone di qualità, hanno un’elevata performance economica sociale e moltiplicatori economici sociali di fatto positivi». Detto questo, non ha molto senso la distinzione che il diritto italiano fa oggi tra imprese sociali e altre imprese. «Non è la distinzione corretta. Quella che va fatta e una distinzione tra imprese di qualità e imprese di minore qualità: nel momento in cui un’impresa è di qualità è già sociale in sé, perché si sta dando un orizzonte di medio-lungo periodo e si sta dando una certa relazione con l’uomo, con la società in generale. Quindi il concetto di impresa sociale deve valere nella sostanza, per tutte le imprese, e non solo con riferimento alla forma».
Ansaldo STS – Dianova
Andrea Razeto, External Realtion & Communication di Ansaldo STS.
«Ansaldo è una società di ingegneria, quindi una società di persone con una parte piccola di produzione industriale a supporto. Nel tempo abbiamo imparato che la responsabilità sociale è qualcosa che include la sostenibilità, per cui abbiamo capito che noi che progettiamo metropolitane e reti ferroviarie abbiamo non solo un dialogo aperto con il nostro committente ma abbiamo anche una responsabilità verso l’utente. L’impatto che ha tutto questo a livello sociale e a livello di comunità locali per noi è fondamentale e importantissimo. Questo è un aspetto che vogliamo sempre più curare, è un dialogo che vogliamo avere con le comunità e per questo stiamo cercando delle opportunità che ci consentano di farlo in maniera efficace. Con la nostra missione di responsabilità sociale, vogliamo inoltre dare un supporto ai nostri dipendenti, ai nostri colleghi e alle loro famiglie così come possiamo darlo anche all’esterno. C’è una cosa che ci ha colpito molto nei progetti di Dianova ed è legata al fatto che il recupero dei ragazzi con criticità è un’attività davvero poco nota. Pochi sanno dove andare e come rivolgersi a voi o a progetti come il vostro. Ora, il punto per noi non è se qualcuno dei nostri colleghi ha una problematica di questo tipo o se ce l’hanno invece altre persone all’esterno. Non ci importa questo: sappiamo che ci sono e non possiamo fare finta di niente. Noi cercavamo qualcosa di questo tipo, ci interessa cercare di far qualcosa insieme e capire quali sono le attività pratiche, le cose concrete che possiamo fare in questo senso».
Anna Maria Maceli, Corporate Fundraiser di Dianova.
«Dianova ha la sua sede a Garbagnate Milanese, in provincia di Milano, e si occupa di disagio sociale da più di 30 anni. Gestiamo comunità di recupero, sviluppiamo progetti negli ambiti del trattamento della tossicodipendenza e del disagio giovanile e ci interessa guardare al futuro dei nostri ragazzi. Abbiamo un sogno: ampliare il potere delle nostre azioni e non possiamo farlo da soli. Quello che ci ha spinto a parlare con Ansaldo STS è la ricerca di nuove sinergie e nuove energie, provenienti da un mondo che conosciamo poco, quello del profit, ma che condivide con noi certi valori. Ci rivolgiamo entrambi a persone e abbiamo a cuore il loro benessere; sappiamo che le azioni che portiamo nelle nostre comunità – che siano comunità di recupero come le nostre o comunità composte da dipendenti di un’azienda come la vostra – sicuramente possono essere amplificate se siamo insieme sullo stesso fronte. Ansaldo STS ci piace perché è propositiva, non cerchiamo una relazione che si esaurisca in un “do ut des”, un concetto che consideriamo superato. La collaborazione per ora ha sortito due momenti di incontro. Il primo riguarda la partecipazione alla Milano Marathon 2018 di alcuni dipendenti di Ansaldo STS che, capitanati da Nadia Pampuro (Global coordinator external relations and communications di Ansaldo) hanno raccolto fondi a favore di Dianova. Il secondo riguarda l’attuazione del progetto “Un orto per coltivare le passioni” che ha l’obiettivo di offrire strumenti e competenze lavorative utili al reinserimento sociale dei ragazzi della struttura per minori in condizione di disagio gestita da Dianova. Nella prossima primavera abbiamo in programma una visita dei rappresentanti di Ansaldo nella nostra realtà, saremo felici di accoglierli e mostrare loro quali evoluzioni ha raggiunto il nostro comune progetto».
Fondazione Unipolis – Caserma Archeologica
Marisa Parmigiani, Direttore e Consigliere Delegato di Fondazione Unipolis.
«Tanto per cominciare, non sono stati loro di Caserma Archeologica a venirci a cercare. Li abbiamo cercati noi, anche se non direttamente, attraverso il bando “Culturability”, una piattaforma che abbiamo messo a disposizione di progetti di innovazione culturale e sociale che promuovono benessere e sviluppo all’insegna della sostenibilità. Perché la scelta di creare un bando? Perché un bando pubblico mette al centro l’idea più che l’organizzazione ed è basato su un concetto di trasparenza che ci piace. Ci siamo concentrati in particolare sulla riqualificazione degli spazi, uno dei driver per la selezione dei progetti è che sappiano ridar vita a luoghi abbandonati o in condizioni precarie. Il bando fa due cose: seleziona i progetti e li aiuta a crescere, perché non sempre chi ha buone idee ha le competenze, le capacità per portarle avanti. Per cui aiutiamo i vincitori a passare dall’idea progettuale al business plan, al modello di business definito. Il progetto di Caserma Archeologica è tra quelli che abbiamo sostenuto quest’anno. Ci piace perché riguarda il recupero di una realtà capace di aggregare, una vecchia caserma dei carabinieri abbandonata, che è stata trasformata in un luogo di cultura, di scambio, di incontro. E ci piacciono le persone che ci lavorano, dotate di entusiasmo, determinazione e capacità critica rispetto alle loro idee».
Laura Caruso, Project Manager di Caserma Archeologica
«La caserma protagonista del nostro progetto si trova a Sansepolcro, in provincia di Arezzo, ed era abbandonata da trent’anni. Su 1.000 metri di superficie ne abbiamo finora sistemati 400, ma presto metteremo a posto un intero altro piano, quello che una volta era occupato dagli appartamenti dei carabinieri. Il nostro obiettivo è stato fin da subito quello di trasformare il palazzo in un grande spazio d’arte – in cui trovano spazio esposizioni e laboratori – posto tra l’altro a pochi metri dal museo civico del paese, dove è esposta una resurrezione di Piero della Francesca restaurata di recente.
Abbiamo partecipato a Culturability all’inizio del 2016 perché avevamo bisogno di nuove forze e avevamo l’esigenza di risolvere le criticità che si erano venite a creare nell’esecuzione del nostro progetto di recupero. Tra i 522 progetti provenienti da tutta Italia siamo stati scelti nella short list e abbiamo avuto accesso a un corso di formazione che per noi è stato di importanza fondamentale perché ci ha messi in rete con altri soggetti che fanno rigenerazione urbana e ci ha fornito una ricchezza dovuta allo scambio di idee che resterà per sempre un nostro patrimonio. Il 9 luglio 2017, alla presenza di un folta rappresentanza di Fondazione Unipolis abbiamo inaugurato lo spazio con una mostra dal titolo programmatico: “Agibile”, come lo spazio che abbiamo ridonato alla cittadinanza e come il tempo storico, per noi divenuto più agibile che mai».
UBI Banca – CESVI
Guido Cisternino, Responsabile Terzo Settore ed Economia Civile di UBI Banca.
«La nostra collaborazione con CESVI è di lunga data, la nostra prima collaborazione risale a 20 anni fa, prima che io fossi in UBI Banca. Come Banca Popolare abbiamo sempre cercato di avere forti legami con il territorio. Nel 2011 abbiamo cercato di migliorare la nostra capacità di supporto al Terzo settore attraverso la creazione di una struttura che si occupasse di creare valore condiviso. Dal 2012 a oggi abbiamo erogato oltre 6 milioni di euro a favore di iniziative sociali attraverso lo strumento dei social bond. Insieme a CESVI e a una società di consulenza indipendente ci preoccupiamo anche del discorso della misurazione dell’impatto sociale. Nel caso del progetto rivolto all’infanzia sul territorio italiano gli indicatori che sono stati presi in considerazione sono la riduzione delle spese sostenute per servizi di consulenza psicoterapeutica che hanno riguardato sia i bambini sia i genitori, il valore economico che il progetto ha contribuito a creare in termini di professionalità per quanto riguarda le associazioni partner sul territorio e il valore economico creato grazie alla maggior partecipazione sociale delle persone che sono state interessate dal programma. Siamo un attore economico e riteniamo sia indispensabile partecipare alla vita e supportare organizzazioni come CESVI ad affrontare problemi sociali presenti nel nostro territorio».
Daniela Bernacchi, CEO & General Manager di CESVI.
«CESVI è un’organizzazione non governativa che lavora su progetti sia di emergenza – come catastrofi nazionali o conflitti – sia di sviluppo, con focus particolare sulla lotta alla fame e sulla crescita inclusiva sostenibile. Con UBI abbiamo iniziato 20 anni fa con una partnership volta a finanziare sei cargo con 200 tonnellate di cibo dirette in Corea in un momento in cui in quel Paese la fame era molto forte e la situazione politica molto tragica. Nel 2005 la banca ha lanciato una credit card legata a una causa sociale da noi sostenuta. Nel 2013 la prima partnership tra il gruppo UBI e i social bond, con una serie di attività di supporto a favore di un programma contro la fame e a favore della sicurezza alimentare in Africa. Poi siamo passati in Italia con il terremoto in Emilia del 2012 e negli ultimi due anni con un percorso sull’infanzia italiana. In Italia ci sono un milione di minori che vivono in povertà assoluta e siamo il fanalino di coda per la spesa alla famiglia e la situazione non sta migliorando. Per questo interveniamo con un programma di cura e di prevenzione dai maltrattamenti e dalla trascuratezza, con una rete di copertura territoriale nazionale e con intervento integrato nelle varie fasi del problema. UBI anche in questo caso è stato al nostro fianco. CESVI ha avuto un ritorno importante da questa partnership, dal punto di vista del posizionamento, della credibilità, della visibilità».
Federdistribuzione – Fondazione Banco Alimentare
Stefano Crippa, Direttore Area Comunicazione e Ricerche di Federdistribuzione.
«Federdistribuzione è una federazione in cui si trovano le maggiori imprese della distribuzione, rappresentiamo la grande distribuzione alimentare e no. Ci siamo posti il tema della riduzione delle eccedenze alimentari e del recupero di questo cibo perfettamente commestibile attraverso donazioni già da molto tempo. In Italia ci sono 5 milioni e mezzo di tonnellate di cibo in eccedenza rispetto a quello che consumiamo. Se noi dovessimo ridurre l’eccedenza a zero potremmo sfamare tutti i milioni di poveri che ci sono in questo Paese. E invece il 90% del cibo in eccedenza, nonostante tutto quello che si fa, viene buttato. Abbiamo cercato di introdurre sensibilità nei confronti di questo tema. Avevamo però bisogno di mettere in contatto le nostre grandi e complesse aziende con realtà con cui produrre risultati efficienti. Il Banco ci ha offerto una partnership ideale, con una macchina logistica davvero efficiente per cui abbiamo cominciato a lavorare insieme, introducendo il concetto della responsabilità sociale tra le nostre imprese».
Andrea Giussani, Presidente di Fondazione Banco Alimentare.
«Anzitutto due parole sulla Fondazione Banco Alimentare con la sua rete di 21 associazioni in Italia, forse conosciuta soprattutto per la Giornata nazionale della colletta alimentare.
Che cosa fa Banco Alimentare? Da 30 anni fa recupero quotidiano di eccedenze alimentari, quello che è ancora commestibile ma non è più commerciabile. Sosteniamo 8mila strutture caritative in Italia, che alimentano 1,5 milioni di persone, tante ma meno di un terzo dei poveri assoluti che vivono in Italia, di questi oltre un milione sono minori. Siamo ponte tra chi dona alimenti e chi li riceve. Non facciamo beneficenza, siamo una struttura di logistica che fa carità, interviene dove ci sono le emergenze sociali. Il nostro motto è “condividere il bisogno per condividere il senso della vita”.
La legge Gadda del 2016 nel primo anno ha aumentato i nostri recuperi del 20%, grazie a un’attenzione maggiore dei distributori alimentari. Nel secondo anno c’è stato un ulteriore aumento del 15%. È un sistema che produce vantaggi per tutti che però bisogna avere la capacità di comunicare. Le imprese della grande distribuzione, ad esempio grazie alla legge potranno godere di agevolazioni fiscali nel pagamento della tassa sui rifiuti. In alcune città questa riduzione è già attiva, a Milano si sta studiando la questione. È importante, perché oltre ad avere un ritorno economico vuol dire che si riconosce che la donazione, in questo caso di alimenti, produce un bene tale da poter essere in qualche modo sostenuto da una riduzione dell’introito delle imposte. Spesso i dipendenti delle aziende fanno volontariato nei nostri depositi, e tutto questo aumenta la reputazione dell’impresa verso i clienti. È importante però riuscire a comunicare tutto questo, con Federdistribuzione stiamo lavorando anche su questo aspetto».
Microsoft – Techsoup
Chiara Ronchetti, Responsabile Comunicazione & Philantropies per Microsoft.
«La missione di Microsoft è quella di permettere a tutte le persone e le organizzazioni del mondo di esprimere il proprio potenziale con il digitale, con la tecnologia. Il digitale può fare molto, ma ancora di più possono fare le competenze e noi in Italia da questo punto di vista siamo nelle posizioni di retrovia. Dobbiamo riuscire a diffondere la cultura digitale in Italia per poter essere più forti in tutti i campi. Circa un mese fa abbiamo dato vita a un progetto che si chiama “Ambizione Italia” focalizzato sul tempo delle competenze, dell’occupabilità, del colmare il divario anche per le persone che hanno bisogno di riqualificarsi.
Lavoriamo con vari partners, tra cui Techsoup con cui collaboriamo da sette anni. Dal 2011 a oggi abbiamo coinvolto più di 4.400 organizzazioni non profit e sono oltre 38 i milioni di euro che queste hanno potuto risparmiare dedicandoli alle loro attività principali perché attraverso Techsoup abbiamo donato un software che permette loro di esprimere appieno tutto il loro potenziale. Lanceremo presto un piano di volontariato per partecipare ai percorsi di formazione che attraverso Techsoup vengono erogati alle ONP, che sono anche per noi importanti, anzi fondamentali per la crescita dell’intero sistema».
Davide Minelli, Direttore Techsoup Italia.
«Techsoup è nata a San Francisco una trentina d’anni fa e si regge sulla responsabilità sociale d’impresa, grazie al fatto che Microsoft e altri partner decidono di dare prodotti alle organizzazioni non profit avvalendosi di supporti Techsoup che in Italia e nel mondo certifica che queste non profit possono ottenere la possibilità di avere un riscontro in termini economici non banale. Siamo presenti in 270 Paesi, per 1 milione di non profit.
Alle organizzazioni non profit noi chiediamo il 5-10% del valore commerciale del bene, anche se in alcuni casi c’è totale donazione. Questo produce una ritrosia iniziale nei confronti del nostro programma che non è banale. Quando penso alla parola “conviene” mi viene in mente l’idea di camminare insieme, è necessario accompagnare le ONP e a volte non basta mettere a disposizione i prodotti, è importante anche contribuire ad aumentare la loro cultura digitale, cosa che facciamo attraverso Techsoup Academy e percorsi su misura, online e offline. Vogliamo aiutare a gestire il cambiamento senza stress ma con umanità e competenza. La convenienza la vedo proprio nel percorrere la strada insieme, con tutte le contaminazioni che si vengono a creare e che sono capaci di produrre una ricchezza di valori straordinaria».
a cura di Luca Palestra
(foto: Cesare Tinelli, Marco Taverna, Luca Palestra)
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