Ci viene chiesto di non smettere mai di imparare. L’apprendimento permanente è un processo che si sviluppa lungo l’intero arco della vita, come il termine Lifelong Learning fa ben intuire. Ciò avviene superando i vincoli stessi di tempo e di spazio, perché da un lato non è più limitato a una fase della vita, dall’altro si può imparare ovunque. Lo si fa per interessi personali, ma anche per motivi professionali.
La formazione continua non solo permette lo sviluppo della conoscenza, delle competenze e delle abilità di una persona, ma va oltre. Favorisce l’inclusione, la partecipazione attiva nei contesti istituzionali, la competitività, l’imprenditività, la possibilità di innovazione e sviluppo. E sviluppa l’impiegabilità all’interno del mercato del lavoro.
L’esigenza di aggiornarsi, sempre
«A settembre – racconta Ilaria Beretta, responsabile dell’area Research dell’Alta Scuola per l’Ambiente (ASA) dell’Università Cattolica del Sacro Cuore – al Festival della comunicazione a Camogli, ho ascoltato il giornalista Ferruccio De Bortoli e l’ex ministro Francesco Profumo riflettere sulla modalità in cui ci formeremo, che cambierà sempre più. Ciò incide anche sulla scansione della nostra vita, perché la scienza e la conoscenza evolvono a velocità gigantesca. Di conseguenza, il bagaglio culturale appreso lungo il percorso classico di studi non è più sufficiente, viene superato dalla velocità dei tempi di trasformazione delle scienze e delle conoscenze. Dobbiamo quindi abituarci all’idea di alternare costantemente nella nostra vita momenti di formazione a momenti di lavoro. A quel punto mi sono venuti in mente i miei genitori. Parlare del fatto che ci si dovesse aggiornare era quasi una vergogna per la loro generazione, era come ammettere che non si si sapesse abbastanza. Oggi questa visione è completamente stravolta: non si sta al passo con i tempi se non ci si aggiorna. E ciò è valido in tutti i campi del sapere. Anche, enormemente, rispetto al tema della sostenibilità, in particolare della sostenibilità ambientale».
La sostenibilità, in tutte le sue accezioni, è oggi sicuramente uno dei temi dominanti l’attività delle imprese. Accanto a una forte spinta verso la sostenibilità data innanzitutto da una questione etica, frutto di una maggiore consapevolezza sempre più presente nelle aziende, vi sono normative, direttive e regolamenti con cui le aziende si devono confrontare, che costituiscono traduzione e applicazione di quella consapevolezza. «Le aziende – spiega Richard Arsan, general manager dell’Alta Scuola Impresa e società (ALTIS) – non sono tenute a rispondere solo delle proprie performance economiche, ma anche dell’impatto che generano a livello ambientale, sociale e di governance. In questo contesto, le imprese scoprono che c’è di più: fare business in maniera sostenibile rischia di essere anche un modo più efficace di fare impresa. Questo rappresenta un’ulteriore spinta verso la sostenibilità. Perché il movimento di opinione pubblica che ha generato queste normative premia chi le rispetta e si presenta sul mercato con un approccio sostenibile».
La sostenibilità in tutte le funzioni aziendali
«Se ragioniamo sulla sostenibilità – continua Ilaria Beretta – prendendo in considerazione le tre classiche gambe – economia, società e ambiente -, è fondamentale capire come poter progredire e attuare una sostenibilità che sia veramente a 360 gradi. Dobbiamo chiederci come poter essere sicuri che le nostre politiche ambientali non abbiano delle esternalità negative, per esempio a livello sociale o economico, e come poter consentire che le scelte economiche non impattino sull’ambiente. Ma c’è un’altra riflessione importante, è sul tema dell’economia circolare. L’Unione Europea, con lo European Green Deal, ci sprona ad attuare un’economia circolare. Di fatto ci sta chiedendo di buttare il cuore oltre l’ostacolo, come se ci dicesse: provate, non sappiamo ancora come fare ma proviamo. In questi casi, la necessità di formazione e di aggiornamento è gigantesca».
Quale sarà dunque il passaggio successivo? «Assistiamo sempre più a una diffusione top-down di questa consapevolezza e di queste normative, dalle grandi aziende alle piccole e medie imprese – commenta l’ingegner Arsan –. Oggi, per esempio, c’è una normativa che richiede una rendicontazione non finanziaria alle società quotate in borsa con più di 500 dipendenti. Ma ci aspettiamo che l’obbligo normativo venga abbassato alle società sopra i 250 dipendenti anche non quotate in borsa. Una recente ricerca di Unioncamere ci mostra che in Italia ci sono circa 3 milioni di green jobs, ossia professionalità che integrano gli aspetti relativi alla sostenibilità: dal cuoco responsabile al marketing sostenibile fino alla supply chain sostenibile. Le aziende stanno cercando figure che siano in grado di integrare la sostenibilità all’interno della propria professionalità. Una sostenibilità che non viene quindi demandata a un sustainability manager, ma che viene integrata in tutte le funzioni aziendali, proprio perché le aziende si rendono conto della ricaduta positiva in termini di business».
Valorizzare sempre più le persone
È quello che è avvenuto da tempo nel settore agroalimentare. «Nell’agri-food – spiega Davide Mambriani, responsabile stage e placement dell’Alta Scuola di Management e economia agroalimentare (SMEA) – la sostenibilità è diventata una parola indispensabile, a partire dal marketing. Ma sappiamo dove stiamo andando? Nei giorni scorsi era ospite in una delle nostre lezioni il proprietario di una storica azienda che produce insaccati. Vendono quasi solamente ai vecchi canali distributivi, non alla grande distribuzione. Perciò, lui fa fare corsi di formazione per i suoi clienti, coinvolgendo i loro figli. In quel modo tiene vivo un meccanismo che forma e perpetua un sistema che si sostenga nel tempo. L’agroalimentare è sicuramente il settore più complesso da affrontare, perché è ricco di innovazioni continue e richiede attenzioni non paragonabili a nessun altro settore. La sostenibilità, sapientemente mischiata alla qualità, garantirà all’agri-food un futuro importante. Per colonizzare i mercati di tutto il mondo, è però fondamentale continuare a formarsi».
Un bisogno simile a quello che Giovanni Lucchini, presidente del Consorzio Farsi Prossimo, che proprio con Università Cattolica ha realizzato un corso executive sul futuro sostenibile del Terzo settore percepisce sempre crescente. «Le grandi sfide sono due – commenta –, il rispetto dell’ambiente e quello della persona. Per quanto riguarda l’ambiente, è una sfida da applicare in ogni ambito. Ci sono cooperative che si occupano di questo, ma anche le realtà che lavorano alla cura della persona devono confrontarsi con questa sfida per realizzare un vero cambiamento d’epoca. La seconda è provare a smarcarsi dagli altri modelli valorizzando sempre più le persone, rifuggendo la considerazione del lavoratore come uno strumento per produrre: la persona è al centro e rappresenta il patrimonio maggiore. Accanto ad esse, però, vi è una terza sfida: farsi aiutare, essere valutati e corretti. L’attenzione che il mondo universitario sta riservando al Terzo settore, anche in termini di valutazione dell’impatto che esso ha sulla società, è uno strumento che va accettato e valorizzato come supporto per valutare la propria azione».
Emerge dunque come la pandemia e il complesso momento che stiamo vivendo non abbiano cambiato i contenuti, ma la consapevolezza. Papa Francesco ci ha ricordato che siamo tutti interconnessi, e il tema della sostenibilità lo ribadisce fortemente. Non si può prescindere dal contesto sociale e ambientale in cui si opera. Ma la strada è ben illuminata: occorre non smettere mai di imparare. La formazione continua.
di Francesco Berlucchi
(da CSRoggi Magazine, anno 6, n.5, Novembre/Dicembre 2021, pag.38)