Nosy be è un’isola piccolissima a nord del Madagascar “Terra grande” – come la chiamano qui – anche se nel linguaggio malgascio significa “Isola grande” per contrapporla a un’altra vicina di dimensione ancor più ridotte. Tutto è relativo.
Il secondo nome con cui è conosciuta è “Isola profumata”. Per scoprire il motivo servono giusto pochi sguardi fugaci. Da lontano sembra una pianta qualunque con foglie giallastre, ma da vicino – mi spiega J. la mia guida – è ylang-ylang (Cananga odorata).

Il nome ad alcuni potrebbe non dire molto, ma in me fa affiorare da un cassetto della memoria un ricordo bizzarro di qualche pubblicità in tv dei primi anni Duemila di un prodotto per l’igiene personale.
Questa pianta mi incuriosisce e decido di fare qualche domanda a J. per scoprire la storia di questa ricca, rigogliosa e onnipresente vegetazione.
Inizia a raccontarmi una storia che a chi si occupa di sostenibilità non può non far riflettere sul conflitto, a volte, che interviene tra questioni ambientali e questioni sociali. Occorre una breve premessa per inquadrare la situazione.

Uno dei Paesi più poveri al mondo
Secondo i dati di Banca Mondiale del 2011 (i più aggiornati), il 78,8% della popolazione del Madagascar, composta da circa 28 milioni di persone, guadagna meno di $1,90 al giorno. Gli altri indici economici e sociali non sono migliori: è uno dei Paesi più poveri al mondo.

L’ylang-ylang non è endemico, si dice che derivi dall’Asia, ma da circa un secolo ricopre l’intera isoletta, conferendole appunto il titolo di “profumata”. Questo fiore viene coltivato in appezzamenti, di proprietà quasi esclusiva di indiani, da famiglie malgasce che vivono in villaggi di baracche e vengono pagate miseramente al giorno e a cottimo. Gli indiani sono proprietari anche dei negozi di Helle-ville, la capitale.

Un kilo di fiori vale sul mercato 2€, tradotto nella nostra moneta dagli ary-ary. La pianta cresce in altezza, per cui viene circoscritta o tagliata per potersi arrampicare agevolmente non oltre i due metri. Occorrono 500 kg di fiori e 300 litri di acqua per avere 12 litri di olio essenziale. Il trattamento viene svolto nelle distillerie, sono circa 10 a Nosy-be e la più grande si trova nella capitale e dà lavoro a circa 50 persone. Ne ho visitata una tradizionale in cui ho visto al lavoro una/due persone. J. non mi risponde quando gli chiedo quanto resti nelle tasche dei coltivatori. Mi colpiscono troppe cose in questo discorso. I mediatori poi rivendono il prodotto all’industria di profumi europea.

Non ci si può chiedere da che parte stare
Vorrei condividere alcune riflessioni:

  1. qui ci sono grandi problemi di acqua e 300 litri se ne vanno per produrre circa 340 “boccette brandizzate”, seppur dopo svariate lavorazioni e raffinature
  2. hanno abbandonato qualche coltura locale storica in nome di questo fiore non autoctono. Non può non saltare alla mente quella lista di articoli che fino a 2/3 anni fa raccontavano di come in Sudamerica, in nome dell’avocado, per gli Occidentali si stessero dimenticando antiche colture. La perdita di biodiversità colpisce di nuovo
  3. il mark up dei brand europei è elevatissimo. Facendo un giro online potrete vedere i prezzi ai quali rivendono queste essenze
  4. per i malgasci rappresenta un’enorme fonte di sostentamento e uno strumento per commerciare con i Paesi ricchi, seppur in maniera economicamente irrisoria.

Non ci si può chiedere da che parte stare laddove il diritto dell’ambiente si interseca con i diritti fondamentali dell’uomo come avere $1.90 per poter sopravvivere.

Il mio obiettivo è stato solo esporre i fatti senza giudizio, ma posso dire di aver imparato con i miei occhi una lezione, anche geopolitica.

(Un ringraziamento particolare a J. e agli altri che si sono aperti al racconto).

di Ylenia Esther Yashar

(da CSRoggi Magazine – Anno 7 – n.3/4– Settembre 2022; pag. 48)

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