In queste ultime settimane, l’emergenza Corona Virus, ha fatto scoprire alle imprese e alle Istituzioni che il concetto di lavoro si può ripensare nelle sue modalità di svolgimento. È stato “scoperto” lo smart working!
Titoli di giornali nazionali hanno strillato notizie dal titolo “Addio Ufficio” (Repubblica, 25 febbraio)
“Corona Virus e smart working: i benefici del lavoro da casa” (Corriere Economia, 25 febbraio)
Un po’ mi fa sorridere questo grido all’innovazione; lo smart working una declinazione più fluida e flessibile del già ben noto “home working” (lavoro da casa, concesso – per grazia ricevuta – da alcuni Direttori HR ad alcune categorie di dipendenti, che si trovavano in situazioni di impossibilità di movimento, più o meno temporanea) è, in realtà, un modello già utilizzato e testato in molti contesti economici internazionali.
Ai miei occhi, non è straordinaria l’applicazione dello smart working, è incredibile la resistenza che è riuscito ad avere, finora, un modello vecchio e costoso, rispetto a uno che ha evidenti benefici sui costi, l’equilibrio familiare, la diminuzione dell’inquinamento, la gestione del traffico in città e l’ottimizzazione dei processi aziendali.
Ciò che è stupefacente, a mio avviso, è che ci fosse bisogno di una paura sociale, come il rischio di contagio da Coronavirus, per sdoganare un modello organizzativo, precedentemente sempre ostracizzato per mai ben identificate ragioni di produttività. Personalmente, non mi è mai capitato di leggere studi, ricerche che attestassero che i dipendenti in smart working rendono meno, anzi, la bibliografia e le ricerche disponibili sul tema comprovano che, nella stragrande maggioranza dei casi, un dipendente cui viene consentito di lavorare in smart working, si sente più responsabilizzato e si impegna maggiormente nel rispetto delle scadenze.
È vero, piuttosto, il contrario: i dipendenti si dichiarano meno stressati, più soddisfatti del proprio operato e più consapevoli del valore del proprio lavoro all’interno della società.
Un dipendente più felice rende maggiormente: in un momento storico in cui in Economia si parla di Happiness at work, di Happyness Manager, all’interno dei team di HR, auspico che lo smart working sia destinato a diventare il modello di riferimento, non quello di rottura.
La Storia chiede al nostro tempo un cambiamento Epocale, in cui l’Economia – attore principale – è chiamata a trasformarsi per sopravvivere (nel senso darwiniano del termine). L’unica via possibile è il superamento del modello capitalistico tradizionale e l’adozione, nel più breve tempo possibile, di un modello di crescita economica sostenibile. In tal senso, la Politica e le istituzioni dovranno agevolare il cambiamento, (le varie direttive Europee, i rece- pimenti Nazionali ne stanno già dando i segni – si pensi al nuovo Codice di Corporate Governance, emanato da Borsa Italiana a gennaio 2020, in cui viene esplicitato nel primo Principio che il compito principale dell’organo di amministrazione debba essere guidare la società perseguendone il successo sostenibile) le imprese e le aziende dovranno impegnarsi in nuovi percorsi di crescita, adattandosi a visioni e modelli innovativi, sostenibili e duraturi. Se il Coronavirus avrà sdoganato uno strumento come lo smart working, possiamo affermare di aver tratto il meglio da ciò che ci è capitato.
Se la felicità non è avere il meglio di tutto ma trarre il meglio da ciò che si ha, possiamo considerarci una società felice, il che, al giorno d’oggi, non mi pare poca cosa.
di Roberta Culella
(da CSRoggi Magazine, anno 5, n.1, Febbraio/Marzo 2020, pag. 26)