CARLO CIMBRI, Ceo Gruppo Unipol

«Le assicurazioni sono, per natura del business che gestiscono, dei grandi utilizzatori di dati: tutto il nostro mestiere è basato sull’interpretazione quanto più possibile intelligente delle informazioni di cui disponiamo, siano esse legate alla persona, alle evoluzioni meteorologiche o al grande mondo della mobilità e quindi dei rischi derivati dalla circolazione. I dati sono da sempre la base della nostra attività, così come il ferro è la base per costruire manufatti.

Che cos’è cambiato, sotto questo punto di vista, in questi anni? Con l’avvento e l’evoluzione di internet, l’ingresso dei social media, l’enorme incremento della popolazione che è entrata a far parte, in maniera stabile o saltuaria, ma comunque continuativa, del mondo del virtuale è cambiata la dimensione dei dati che noi dobbiamo gestire. E quindi siamo tutti alle prese con sfide che sono proprie del nostro settore, come utilizzare i dati in maniera più intelligente ed efficace possibile, per dare un ritorno ai nostri clienti.

Saper utilizzare, ad esempio, in maniera efficace l’enorme massa di dati che ci deriva dalle scatole nere, che sono quei device che vengono installati sulle autovetture e monitorano in continuo una serie di parametri sia sullo stile di guida della persona – tempi di frenata, piuttosto che di accelerazione, ecc. – sia sulle abitudini di percorrenza.

Saper utilizzare i dati con intelligenza vuol dire proporre ai nostri clienti prodotti sempre più tagliati su misura, che vuol dire far pagare, come punto di arrivo, a ognuno il premio che deriva dalla sua effettiva rischiosità, aspetto che ha un risvolto anche di natura etica.

Per quanto riguarda il discorso della Corporate Responsibility sui dati, credo che in ambito di gestione dei dati non siamo ancora arrivati all’uomo di Neanderthal, siamo ancora fermi alle prime forme di vita batteriche. Nel senso che viviamo in una giungla totale. C’è un mercato tutto da regolare ed è giusto che le persone si rendano conto che oggi il livello di protezione che si sceglie di abbandonare quando si entra nel digitale è un livello molto alto. Se vuoi difendere la tua privacy oggi su internet non ci puoi entrare. Sai che quando entri metti a disposizione di una giungla di possibili captatori i tuoi dati.

Se penso al contesto dei dati penso ci sia necessità di una regolamentazione generale perché, per esempio, o diventa vietato del tutto fare il riconoscimento facciale o ci sarà sempre qualcuno che lo farà, traendone un vantaggio competitivo rispetto ai soggetti più virtuosi che scelgono di non farlo.

Questo è il punto: la regolamentazione è fondamentale perché se c’è qualcosa che non va bene che venga fatto per la collettività allora deve essere limitata. Bisogna fissare regole per cui se una cosa si può fare allora la fanno tutti, se non si può fare non la può fare nessuno. Nell’ambito di queste regole chiave poi ognuno farà le proprie scelte e c’è anche chi potrà decidere, ad esempio, di non utilizzare il sesso di una persona per operare una valutazione sulla rischiosità. Altri lo faranno, e magari saranno in grado di proporre prodotti migliori proprio perché utilizzano anche questo parametro (ad esempio le donne, contrariamente a quanto si pensa e si dice, sono meno “rischiose”, al volante, rispetto agli uomini. Per cui sarebbe giusto che pagassero un premio assicurativo inferiore, cosa che oggi non è possibile a causa di una norma europea che, posta per evitare discriminazioni di genere, vieta che ci siano diversificazioni assicurative basate sul sesso)».

(da CSRoggi Magazine, anno 5, n.4, Luglio 2020, pag. 21)

 

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