I recenti provvedimenti legislativi adottati a livello europeo sembrano rappresentare un rallentamento, se non una vera e propria marcia indietro nei confronti della sostenibilità. Un revirement politico giustificato dalla Commissione nel nome della competitività: l’ingresso della sostenibilità in modo penetrante nella vita di impresa, sembra essere la nuova idea, rischia di essere foriero di lacci e lacciuoli soffocanti per la creatività e la vitalità delle aziende.
(Leggi l’articolo di Marco Perassi qui sotto, oppure da CSRoggi Magazine – n.2 – Anno 10 – Aprile/Maggio 2025; pag.40)
Marco Cristiano Petrassi – Avvocato
L’Unione Europea ha rallentato la corsa della sostenibilità. Anzi, per I molti i recenti provvedimenti legislativi rappresentano una vera e propria marcia indietro.
Il 26 febbraio 2025 la Commissione Europea ha pubblicato l’Omnibus Simplification Package, una proposta provvedimento che ambisce ad accrescere la competitività europea e alleggerire gli oneri amministrativi che, dalle disposizioni della CSRD (Corporate Sustainability Reporting Directive), CSDDD (Corporate Sustainability Due Diligence Directive) e Tassonomia, sarebbero potuto derivare per le imprese finanziarie e non finanziarie.
Le principali linee di azione del pacchetto Omnibus riguardano:
a) per quanto riguarda la CSRD:
- la modifica del perimetro di applicazione della CSRD, aumentando le soglie dimensionali così da allinearle a quelle della CSDDD: in particolare, la direttiva si applicherebbe solo alle imprese UE con più di 1.000 dipendenti e almeno 50 milioni di euro di fatturato e/o 25 milioni di euro di patrimonio netto; imprese extra-UE con un fatturato netto UE di almeno 450 milioni di euro e una succursale in UE con almeno 50 milioni di euro di fatturato;
- la sospensione di due anni dell’entrata in vigore della CSRD per le aziende che, in base alla normativa vigente, avrebbero dovuto pubblicare il primo report di sostenibilità nel 2026 e 2027 (le c.d. wave 2 e 3);
- la semplificazione degli ESRS (ossia gli standard di reporting già predisposti da11’Efrag), attraverso una riduzione delle informazioni richieste;
b) per quanto riguarda la CSDD:
- la semplificazione degli obblighi di due diligence in materia di sostenibilità, limitando l’obbligo di due diligence solo ai partner commerciali diretti e imponendo la revisione delle valutazioni di sostenibilità ogni cinque anni;
- la rimozione dell’obbligo di interrompere le relazioni commerciali in caso di impatti negativi.
Nel frattempo, ai primi di aprile 2025, il Parlamento europeo ha approvato, con procedura di urgenza, la parte delle proposte della Commissione destinata alla posticipazione dei tempi di applicazione e recepimento, rispettivamente, della CSRD (per le wave 2 e 3) e della CSDD.
Un cambio di prospettiva che lascia confusi
Le misure ridisegnano il perimetro degli obblighi in tema di rendicontazione e gestione delle tematiche di sostenibilità. In buona sostanza, la sostenibilità diventa un tema obbligatoriamente all’ordine del giorno solo delle grandissime imprese, mentre, per tutte le altre, la questione torna nella sfera della volontarietà.
Il revirement politico è giustificato dalla Commissione nel nome della competitività: l’ingresso della sostenibilità in modo penetrante nella vita di impresa rischia di essere foriero di lacci e lacciuoli soffocanti per la creatività e vitalità delle aziende.
Eppure, fino a qualche mese fa, veniva al contrario spiegato dalla stessa Commissione che la sostenibilità rappresentava il volano della competitività. Simili cambi di prospettiva lasciano confusi e, peraltro, aggravano il calo di fiducia dei cittadini anche nelle istituzioni della comunità europea. La verità è che, negli ultimi anni, la sostenibilità è stato il cavallo di troia per la costruzione di un mondo nuovo. Teorie e visioni si scontrano però spesso con la realtà, soprattutto quando non sono sorrette da una cultura diffusa.
In questo senso, sono emblematici i primi ordini presidenziali di Trump che, nell’abrogare le politiche green della precedente amministrazione, le definiva “normative onerose e motivate da ragioni ideologiche”. L’insistenza ideologica sulla sostenibilità ha determinato, quasi ovunque, una crisi di rigetto.
Va aggiunto che, poi, l’attuale contesto geopolitico pone delle sfide economiche pressanti alle imprese: si pensi all’approvvigionamento energetico o agli investimenti sull’ intelligenza artificiale. Da una parte sta imponendo una nuova accelerazione tecnologica, ponendo alle imprese costose sfide di rinnovamento e aggiornamento, dall’altra il nuovo contesto geopolitico è di conflitto e competizione permanente tra stati e superpotenze, il gioco è fatto: la sostenibilità è rinviata a tempi migliori.
Restano le conquiste di questi ultimi anni
Questo non vuol dire che le lancette dell’orologio torneranno davvero del tutto indietro. Restano alcune conquiste di questi anni.
La prima – quella essenziale – è la rottura della relazione biunivoca tra “capitale” e “profitto”, ossia l’idea che l’investimento di capitali per lo svolgimento dell’attività di impresa sia vocato esclusivamente alla produzione di un profitto per gli investitori. Si tratta di una idea ben radicata nella cultura giuridica occidentale e che ha sempre ammesso poche eccezioni. Il pensiero alla base della sostenibilità sostiene invece che il capitale possa essere orientato anche al perseguimento di obiettivi diversi e ulteriori dal profitto.
Esempio di questo approccio sono le B-corp e, nel nostro ordinamento, le società benefit, entità che, per definizione legislativa, ammettono l’innesto di finalità altruistiche affianco allo scopo di lucro. Negli ultimi anni, però, la riflessione giuridica si è ulteriormente evoluta sino ad ammettere la possibilità anche per le società ordinarie di svolgere l’attività anche per scopi sostenibili e, persino, ripartire gli utili per il raggiungimento di tale scopo.
Ancora, si ritiene possibile che, negli statuti societari, l’azione degli amministratori sia vincolata al parere di taluni stakeholders (e quindi soggetti esterni alla società). Si tratta di profonde innovazioni, che non sarebbero state possibili senza una nuova concezione del “fare impresa”. In un certo senso, la cultura della sostenibilità ha rotto gli schemi e liberato le scelte degli imprenditori o, in ogni caso, ne ha riconosciuto piena cittadinanza nel nostro ordinamento.
Da altro punto di vista, la cultura della sostenibilità ha dato definitiva dignità a un approccio manageriale e aziendale che tenga conto delle esternalità negative prodotte dall’attività di impresa sull’ambiente e sugli altri stakeholders. È in questo modo che gli interessi degli stakeholders diventano un elemento da considerare per il successo dell’impresa nel medio e lungo periodo.
È verosimile la nascita di un Quarto settore
Proprio il governo degli effetti lungo la filiera della catena del valore è del resto al centro della direttiva CSDD così come della CSRD. Tuttavia, anche al di là di tali provvedimenti, la sostenibilità ha tolto dal cono d’ombra il problema delle esternalità dell’attività di impresa. Anche questa è una conquista culturale che non potrà essere cancellata. Certamente, la ridefinizione del perimetro delle direttive CSRD e CSDD riporta questi temi nell’area della volontarietà.
È verosimile quindi che, dopo il Terzo settore, comincerà a delinearsi un cosiddetto Quarto settore, un’area economica di operatori che, sebbene orientati al profit, organizzeranno l’attività imprenditoriale in modo da tenere conto anche degli impatti su comunità e ambiente.
Probabilmente, è questa la via più sicura per una penetrazione della sostenibilità nel settore economico.
Un via più articolata e lunga, come tutte le strade che puntano sulla libertà, ma i cui frutti saranno sicuramente più duraturi.
(19 maggio 2025)