Il Palazzo Sostenibile
Avvocato, già ministro per gli Affari regionali e l’autonomia nei governi Renzi e Gentiloni, è stato anche viceministro della Giustizia, Enrico Costa è deputato e rappresentante di Azione, il partito di Carlo Calenda che dell’innovazione ha fatto una sua bandiera.
Onorevole Costa, l’Italia è un Paese bloccato, non solo dalla pandemia, ma da problemi endogeni che si trascinano da anni, non abbiamo ancora recuperato il gap accumulato con la crisi del 2008. C’è una sola via, lo sviluppo, e lo sviluppo è intimamente legato all’innovazione che, come la rivoluzione, non è un pasto gratis, ha i suoi costi, economici, sociali e ambientali. Giustamente il nuovo ministero non parla di uno switch off ma di “transizione” ecologica. Quali devono essere i passi e i tempi di questo equilibrio fra progresso e sostenibilità?
«La transizione ecologica è una tematica di interesse primario non solo per il nostro Paese, ma per tutta l’umanità. Noi dobbiamo essere in prima linea nella lotta ai cambiamenti climatici, perché il nostro Mediterraneo è una delle aree più sensibili in assoluto e l’Italia è tra i primi dieci posti al mondo sia per numero di vittime sia per perdite economiche pro-capite dovute agli eventi climatici estremi. Con il Green Deal l’Unione Europea si è prefissa di ridurre le emissioni del 55% entro il 2030, rispetto alle emissioni base del 1990, e di raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. Si tratta di obiettivi incredibilmente ambiziosi ma che possiamo raggiungere insieme ai nostri partner europei in modo deciso ma al tempo stesso graduale, facendo attenzione a trovare il giusto connubio tra un auspicabile progresso e la necessità di garantire che sia socialmente accettabile e, soprattutto, che nessuno venga lasciato indietro».
Cuore di una politica di innovazione sostenibile è la questione energetica. Ci sono i sostenitori della decarbonizzazione totale, della scelta univoca delle energie rinnovabili e quelli di un mix energetico, non solo come scelta transitoria ma come garanzia di una produzione stabile di energia anche in situazioni avverse (il gelo di questi giorni in Usa ha bloccato impianti eolici e solari). Lei per cosa propende?
«Gli obiettivi a lungo termine non possono prescindere da una visione realistica che tenga conto della necessità di garantire una disponibilità stabile di energia per famiglie e industrie. Ad oggi, l’unica cosa che può farlo è un mix energetico certamente sempre più virtuoso ma che non scada in scelte estreme per il puro desiderio di vendere slogan non sostenibili. Mi viene a mente il piano tedesco dell’Energiewende, molto ambizioso ma che ha causato un aumento delle emissioni inquinanti nella produzione di energia a causa dell’ancora basso fattore di capacità dell’eolico – nei giorni poco ventosi – e di fotovoltaico – durante i giorni nuvolosi – e la dismissione degli impianti nucleari, che ha portato all’apertura di nuove centrali a carbone (sì, a carbone) persino nel 2020 per rispondere al suo fabbisogno energetico. L’Italia purtroppo dipende ancora enormemente dall’estero per il proprio approvvigionamento energetico, con decine di miliardi di euro spesi ogni anno per le importazioni. È indubbio che le energie rinnovabili comportino innanzitutto una maggiore autosufficienza del Paese, migliorandone la bilancia commerciale. L’andamento degli ultimi trent’anni segue del resto queste dinamiche, con una stabile diminuzione dell’utilizzo di combustibili fossili – soprattutto prodotti petroliferi – nel mix energetico e un graduale, ma inesorabile, aumento delle rinnovabili».
Un caso specifico: idrogeno verde o idrogeno blu? Il primo, prodotto con energie rinnovabili, è più eco-compatibile, il secondo, di origine fossile con cattura di CO2, ha costi decisamente minori e vede l’Italia all’avanguardia nelle tecnologie di stoccaggio della CO2 e l’impegno di campioni nazionali come l’Eni. Che fare?
«Rifacendomi alla prima domanda, è palese che l’idrogeno verde faccia parte di quegli strumenti estremamente ambiziosi ma che comportano costi spropositati per la collettività. È importante non fare il passo più lungo della gamba e pianificare in modo oculato e strategico le scelte da compiere. La stessa Commissione europea prevede che l’idrogeno verde comincerà ad avere un ruolo primario nella transizione ecologica solo, e lentamente, a partire dal 2030 e sempre più verso il 2050. Oltretutto, come giustamente dice lei, l’Italia è all’avanguardia nelle tecnologie di stoccaggio dell’anidride carbonica e, quindi, l’idrogeno blu può davvero essere uno strumento sensato che accompagni la transizione in modo responsabile e graduale, evitando di diventare schiavi di progetti ottimistici e costosi, quando non persino utopistici».
L’innovazione, pur essendo ormai molto veloce il ritmo del progresso, ha tempi lunghi, non è compatibile con il marketing quotidiano, a risposta immediata, a cui sono abituate molte aziende, soprattutto PMI. Come aiutare gli investimenti in ricerca, gli studi per scelte lungimiranti sul lungo periodo. Il fisco può essere uno strumento in tal senso?
«La transizione ecologica, però, non può prescindere dall’innovazione tecnologica. E quest’ultima non può raggiungere i risultati desiderati senza i necessari investimenti per la crescita. Il punto difficile, ma necessario, da accettare è proprio questo: bisogna saper cogliere le opportunità che il periodo storico in cui viviamo non solo ci offre, ma, paradossalmente, ci impone. Molte tecnologie sono ancora in fase embrionali, dai risultati incerti o dai costi ancora davvero troppo elevati per essere utilizzate in modo diffuso. Lo stesso idrogeno, che ha peraltro già dimostrato notevoli vantaggi, ha bisogno di tempo per essere utilizzato in scala e sostituire le fonti fossili. La situazione è molto complessa perché molti strumenti tecnologici sono acerbi o finanziariamente proibitivi. Bisogna quindi essere pazienti. La classe politica, con il contributo della scienza, dovrà essere abile nello sposare una visione a lungo raggio, facendo da raccordo tra le diverse “anime” della transizione: gli obiettivi di riduzione delle emissioni nel lungo termine, le necessità economiche del breve termine e, infine, la consapevolezza che tutto ciò non si potrà raggiungere senza il contributo della ricerca. Quest’ultima può essere certamente incentivata tramite strumenti fiscali ad hoc.
Il segretario di Azione, Carlo Calenda, ha più volte sottolineato la bontà del piano Transizione 4.0, da lui stesso promosso quando sedeva al MISE, sia per le imprese, sia per l’industria. Gli investimenti da incentivare sono quelli legati all’economia circolare, alla decarbonizzazione e all’innovazione ambientale, per un vero cambio di paradigma nei sistemi energetici. Bisogna avere il coraggio di ammettere che senza una visuale ad ampio respiro, gli obiettivi di transizione rischiano di rimanere al palo o, peggio, di diventare finanziariamente insostenibili».
di Ubaldo Casotto
(Foto: Armando Dadi)
(da CSRoggi Magazine, anno 6, n.2, Marzo/Aprile 2021, pag. 74)