Maurizio Lupi, presidente di “Noi con l’Italia” è deputato dal 2001 ed è stato ministro delle Infrastrutture e dei trasporti. Fondatore e presidente dell’Intergruppo parlamentare per la Sussidiarietà, è stato tra i primi a sostenere l’ipotesi di un governo Draghi e la necessità di politiche di discontinuità con il governo Conte bis.
Onorevole Lupi, perché lei insiste tanto sulla discontinuità? In fondo è stata la precedente maggioranza a impostare l’affronto della pandemia e a ottenere dall’Europa i miliardi del Recovery Fund per il rilancio del Paese…
«Non voglio togliere meriti a nessuno, se ci sono, ma vorrei partire dai fatti e guardare in avanti, questo Paese ha già viaggiato per troppi anni con l’occhio fisso sullo specchietto retrovisore».
E i fatti quali sono?
«I fatti parlano chiaro: c’era un piano vaccinale che non decollava, la discontinuità in questa specifica politica sanitaria e negli uomini che la dovevano attuare ha dimostrato di funzionare. Con tutte le cautele necessarie, ma anche con un ragionevole “rischio calcolato” – come ha detto Mario Draghi – da alcuni mesi abbiamo cambiato ottica, si è passati dalle chiusure come scenario e orizzonte che limitano i contagi a predisporre un’azione che avesse come obiettivo le riaperture e la ripartenza del Paese. Sembra poco, ma è totalmente diverso pensare, progettare e pianificare a partire da un punto di vista conservativo o da uno che ha come obiettivo il cambiamento».
Il primo obiettivo non è la salute? Sconfiggere il Covid e tornare allo stile di vita precedente e alle sue sicurezze?
«Assolutamente no. L’obiettivo è lo sviluppo, la crescita. La sconfitta del Covid è la condizione necessaria, ma assolutamente non sufficiente. Quello che abbiamo capito in questo anno è che non possiamo assolutamente tornare come prima – a parte che non è possibile – ma o cogliamo l’occasione per il cambiamento o siamo un Paese destinato al declino. In Italia purtroppo, non solo la politica ma anche molta classe cosiddetta dirigente, si è abituata negli ultimi anni a vivere di rendita, ma la rendita va bene per i vecchi – e infatti il nostro è anche demograficamente un paese che invecchia – o per i fortunati che possono contare su un’eredità, ma non dà prospettive ai giovani».
Quindi?
«Quindi – ed è il secondo punto di discontinuità – ben venga il PNRR (il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, ndr) come l’ha riscritto il governo Draghi, perché quei miliardi devono essere usati per debito buono, per debito che produce cambiamento, e cambiamento per me vuol dire essenzialmente una cosa: investimenti che creano lavoro».
Con 240 miliardi di euro certamente si dà lavoro a tanta gente…
«Lavoro non vuol dire solo stipendi, altrimenti avremmo continuato con redditi di cittadinanza, cassa integrazione e ristori. Lavoro vuol dire fare cose utili alla vita della gente, rispondere ai loro bisogni, creare ricchezza da distribuire e questo lo Stato da solo non può farlo. Il principale soggetto creatore di lavoro sono le imprese e se c’è una cosa che la pandemia ci ha insegnato è che il privato non può fare a meno del pubblico e viceversa. Ogni euro di investimento pubblico deve essere un incentivo e un moltiplicatore di investimenti dei privati. E soprattutto ci ha insegnato che un piano di spesa così imponente se vuole ottenere effetti duraturi deve accompagnarsi con le gran di riforme della pubblica amministrazione, della giustizia e della concorrenza. Allora il PNRR sarà veramente uno strumento di trasformazione dell’economia italiana e non solo uno stimolo, pur grande, alla ripresa produttiva».
Ci faccia qualche esempio, per favore, e non ci parli solo genericamente di digitale e di transizione ecologica.
«Innanzitutto invito a non sottovalutare, al di là della retorica che si fa su questi argomenti, né i piani per il digitale né quelli per la transizione ecologica, soprattutto considerate le persone che sono deputate a elaborarli e curane l’attuazione: i ministri Vittorio Colao e Roberto Cingolani; li conosco entrambi e sono stati un grande acquisto per il governo del Paese. Ma parlo di ciò che conosco meglio, le infrastrutture. Nel piano ci sono 32 miliardi e mezzo per le infrastrutture ferroviarie e stradali, soprattutto ferroviarie, che sono il vero investimento sostenibile, quelle stradali hanno sostanzialmente bisogno di manutenzione. Ricordo che quando da ministro varai il decreto del “Fare” con importanti investimenti in infrastrutture prevedevamo investimenti per 3 miliardi e in Consiglio dei ministri ci guardavano come temerari perché sembravano troppi. Da 3 a 32, si capisce l’occasione di cambiamento che abbiamo?».
Perché questo sarebbe un segno di cambiamento?
«Perché dopo anni di demagogia “No Tav” cade un tabù: l’alta velocità serve, la mobilità e le strutture che la assicurano sono una ricchezza per le persone e per le imprese. Ed è un segno di cambiamento perché lo è già stato, non è una scommessa cieca sul futuro, è più ancora di un “rischio calcolato”, è una scelta che ha dalla sua l’esperienza. Chi per lavoro andava da Milano a Bologna in auto e ci metteva due ore e mezza con tuti i conseguenti problemi di parcheggio e di inquinamento e di ottimizzazione del tempo ora ci va in treno, non perché lo Stato ha aumentato la benzina o le tasse sul pedaggio o ha messo più autovelox per disincentivare l’uso della macchina, ma perché ha incentivato l’uso del treno costruendo l’alta velocità. Estenderla fino a Reggio Calabria e collegare Bari e Napoli vuol dire cambiare l’economia del Sud».
Un Paese non vive solo di infrastrutture, cos’altro la convince del PNRR?
«L’investimento in istruzione e ricerca, che – se permette – è anch’essa una grande infrastruttura, materiale e immateriale, su cui si regge il Paese. È uno dei punti in cui si vede di più la differenza di investimento tra il PNRR di Conte e quello di Draghi. Io penso che qui ci voglia più coraggio ancora e che proprio in questo campo vadano abbattuti steccati ideologici che bloccano il cambiamento. Non parlo solo della dialettica pubblico-privato, ma della separazione ancora purtroppo molto marcata tra scuola e lavoro. Investire in istruzione e formazione oggi vuol dire porre le vere basi per uno sviluppo sostenibile.
È il vero investimento – come ha detto Draghi al Meeting di Rimini dello scorso anno – ma resterebbe astratto se non prevedesse una vera alleanza tra questi due mondi. Si era dato inizio con la legge sulla Buona scuola all’alleanza scuola-lavoro, io penso invece che si debba arrivare a una vera e propria alleanza: per un miglioramento dei programmi, per una nuova didattica, per un’apertura delle scuole al territorio e alle sue imprese e viceversa, perché un giovane che entra in un’azienda porta con sé un mondo che evita certe rigidità e sclerosi che sono un rischio per molti imprenditori. Questo vuol dire investire in edilizia scolastica, in digitalizzazione, in programmi e sperimentazioni… Il possibile risultato? Oggi il 48% delle richieste di personale delle imprese resta inevaso e solo il 56% dei diplomati trova lavoro entro il primo anno. In Germania il 92%. Si capisce che cosa intendo per cambiamento?».
di Ubaldo Casotto
(da CSRoggi Magazine, anno 6, n.3, Maggio/Giugno 2021, pag. 58)
(foto Camera dei Deputati: sudiarapido.it)