Si rimane in una sorta di attesa rispetto a un nuovo ordine economico europeo strutturalmente caratterizzato dairorientamento alla sostenibilità. Attesa riempita dalla speranza che questo nuovo ordine sia migliore di quello in cui l’economia europea si è sin qui sviluppata.
Già e non ancora: questo potrebbe essere lo slogan per descrivere il 2023 della sostenibilità. “Già”, perché alcuni passi significativi sono stati compiuti proprio sul finire del 2022; in questo senso è emblematica, tra tutti, l’emanazione della Corporate Sustainability Reporting Directive che ha modificato gli obblighi di informazione non finanziaria già introdotti nel 2014.
“Non ancora”, perché la disciplina della stessa CSRD si applicherà, per le grandi imprese già soggette agli obblighi di disclosure vigenti, a decorrere dal 1° gennaio 2024 e sono attesi, per il 2023, gli standard di rendicontazione a cura dell’Efrag.
Ugualmente, non si è ancora chiuso il cerchio sulla proposta di Direttiva sul dovere di diligenza delle imprese, dalla cui adozione deriveranno obblighi positivi di due diligence e monitoraggio, lungo tutta la catena del valore, con riferimento agli impatti ambientali e sui diritti umani.
Si rimane, dunque, in una sorta di attesa rispetto a quello che non c’è ancora e che sarà, vale a dire un nuovo ordine economico europeo strutturalmente caratterizzato dall’orientamento alla sostenibilità. L’attesa è riempita dalla speranza che questo nuovo ordine economico sia migliore di quello in cui l’economia europea si è sin qui sviluppata.
Se i risultati saranno davvero all’altezza delle attese, il nuovo modello economico europeo porterà una sensibile diminuzione degli impatti sull’ambiente, nonché un avanzamento dei diritti dei lavoratori e, ad ogni livello, un miglioramento delle condizioni di lavoro.
Rimangono sullo sfondo però alcuni interrogativi.
L’attuale modello economico capitalistico e globalizzato è, anche grazie al progressivo sviluppo tecnologico, un sistema profondamente interconnesso, in cui le imprese sono soggette a una competizione permanente. La ricerca del profitto a ogni costo e la logica dello short termism hanno spesso indotto le imprese ad abbandonare le reti territoriali, a favore di rapporti commerciali su scala globale.
Viceversa, il nuovo modello economico di capitalismo sostenibile richiede politiche di rendicontazione e di misurazione degli impatti nonché di stakeholders engagement che presuppongono la valorizzazione dei rapporti territoriali e delle relazioni commerciali durature.
Nello stesso senso, l’abbandono delle logiche di short termism a favore di una programmazione dei cambiamenti e degli investimenti non possono che favorire ulteriormente un ritorno alla territorialità, anche come capacità delle imprese di rispetto dei tempi di ciascuno dei propri stakeholders per l’adeguamento in termini di innovazioni tecnologiche e sociali.
Un collante dell’integrazione
La sostenibilità può quindi aprire la porta a una dimensione più umana e comunitaria dell’economia, capace di includere anche tempi diversi dello sviluppo. L’affermarsi di questo nuovo modello economico chiede però un cambiamento innanzitutto culturale e dipenderà ovviamente dalla consapevolezza e disponibilità dei singoli operatori economici di rinunciare a logiche di opportunismo economico. Il successo del nuovo ordine sostenibile sarà però inevitabilmente influenzato dagli scenari politici ed economici internazionali e dal rapporto con gli altri sistemi.
Da questo punto di vista va ricordato che l’attuale ordine economico è fondato sul principio della neutralità del business (e del mercato) rispetto al sistema di valori etici della comunità; probabilmente, proprio questa neutralità ha agevolato l’espansione commerciale delle imprese più forti nel mondo e la progressiva conquista di nuovi mercati.
Il nuovo ordine ha invece come fulcro l’adesione (o l’adeguamento) delle imprese a un dato sistema valoriale.
La mancata adesione del singolo operatore ne può infatti giustificare persino l’esclusione dalle relazioni commerciali. E’ evidente che un simile esito è tanto più possibile quanto è più forte sia la posizione commerciale dell’impresa che chiede l’adesione ad un sistema etico o, comunque, l’adeguamento agli standard e prassi di sostenibilità richiesti.
È quindi ancora da verificare come il sistema economico europeo interagirà con le altre economie mondiali non ancora vocate alla sostenibilità, se saprà condizionarle o ne sarà condizionato, se, conseguentemente, sarà capace di favorire o al contrario frenerà l’espansione commerciale delle imprese europee fuori dai loro confini territoriali.
Infine, non può essere tralasciato il tema del consenso alle politiche di sostenibilità.
Prima di essere promosso dagli atti normativi, anche di soft law, internazionali e sovranazionali, la sostenibilità è stata oggetto sinora della riflessione e dell’attenzione di elites intellettuali e imprenditoriali. La circostanza che la sostenibilità sia diventata mainstream non dimostra nulla della convinta adesione della maggioranza delle imprese e dei cittadini.
Sarà interessante osservare come, con il progressivo intensificarsi delle richieste di adeguamento lungo la catena di fornitura, la piccola e media imprenditoria reagirà di fronte alla conseguente necessità di investimenti e assunzione di costi e se, da questo punto di vista, la sostenibilità saprà essere un collante dell’integrazione europea o, invece, un fattore di divisione politica e dissenso tra i cittadini.
di Marco Cristiano Petrassi
Avvocato
(da CSRoggi Magazine – Anno 8 – n.1 – Febbraio 2023; pag. 68)