MARISA PARMIGIANI, Head of Sustainability and Stakeholder Management Unipol Group
«Abbiamo parlato di trasparenza, di consapevolezza, dell’esigenza di una maggiore regolamentazione della gestione dei dati come ulteriore strumento da adottare per integrare un processo volontario che non è sufficiente a governare un fenomeno così nuovo, impattante e strategico per la costruzione delle soluzioni e delle risposte del futuro. Nel senso che tutti siamo consapevoli delle potenzialità enormi che hanno questi dati anche per indirizzare il progresso sociale. E quindi abbiamo evidenziato la logica di tutelarli e usarli in un’idea di creazione condivisa.
La ricerca dell’Osservatorio sicurezza, realizzata da Fondazione Unipolis insieme a DEMOS&PI, offre un quadro della situazione del nostro Paese in relazione alla percezione di questi temi da parte delle persone italiane.
Partendo dal dato sugli internauti, si registra un elemento stupefacente: il 29% degli italiani rientra nella categoria “sconnessi”, che comprende quelli che non si connettono mai. Si tratta principalmente di anziani (il 50% dei pensionati), e di persone poco scolarizzate. La totalità degli studenti rientra invece tra gli internauti assidui e tra coloro che sono sempre connessi. Anche da questo punto di vista si vede come ci sia una profonda spaccatura generazionale, uno dei temi che attraversa tutto il trend della digitalizzazione. Passando alla percezione della sicurezza di chi naviga, cioè di che cosa hanno paura, si scopre, e forse non è una novità, che chi ha più confidenza ha anche meno paura.
I “luoghi” di maggior rischio sono considerati soprattutto i social network, mentre ci si fida di più dei siti di e-commerce e di tutti quelli che mettono in relazione il soggetto singolo con un’impresa attraverso uno scambio economico (es. home banking).
Per quanto riguarda il tema del rischio cyber e della capacità di esporsi e di mettersi a rischio per i propri comportamenti su internet, solo il 24% dei soggetti presta molta attenzione a come si muove. C’è quindi uno scarto significativo tra coloro che si ritengono molto competenti della rete e coloro che si premurano di prestare molta attenzione. Si tratta in definitiva di un indicatore di scarsa reale alfabetizzazione su questi processi.
Per quanto riguarda la gestione dei dati, ci interessava capire chi si sente frequentemente spaventato e ci invece non ha la percezione del pericolo, perché non sentirsi spaventato rispetto a questa giungla vuol dire molto probabilmente avere (a parte rari casi di soggetti molto competenti e che sono parte dell’ecosistema) una scarsa consapevolezza della questione. Abbiamo riscontrato una bassissima percezione di un tema straordinariamente etico, a conferma di quanto sia importante che le aziende si attivino per la protezione delle persone.
Sul rapporto tra sicurezza e tutela della privacy vediamo che c’è ancora una bassissima consapevolezza del fatto che le tracce che noi lasciamo, in realtà siano tracce che ci porteremo dietro per tutta la vita e che potranno essere utilizzate anche per fini non del tutto etici. C’è molta più preoccupazione per la possibile presenza in rete di fake news e informazioni sbagliate sulla propria persona: il concetto dell’identità è molto presente nelle paure. Per il resto c’è molta consapevolezza rispetto all’utilizzo delle tracce in rete: il 60% delle persone sa di essere controllata dalle aziende, solo il 40% dallo Stato, quindi c’è una minore percezione di invasione e forse anche per questo viene più accettata come una giusta conseguenza. Tra coloro che percepiscono di essere monitorati dalle aziende c’è però una netta consapevolezza (il 72%) che le stesse aziende lo fanno per proprio vantaggio, solo il 10% pensa sia fatto per migliorare i servizi o i prodotti a vantaggio dell’acquirente».
(da CSRoggi Magazine, anno 5, n.4, Luglio 2020, pag. 22)
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