Il brano “Il duello con i mulini a vento” è uno dei racconti più significativi del Don Chisciotte, capolavoro di Miguel Cervantes, componimento in prosa che probabilmente segna la nascita del romanzo moderno europeo, peraltro in qualche modo ispirato dalla nostra penisola, se è vero che verso la fine del XVI secolo proprio Cervantes visitò l’Italia, e approfondì la sua conoscenza della letteratura italiana, venendo a contatto con i poemi epico-cavallereschi rinascimentali.
Ed è proprio da quella narrativa che si lascia ispirare e rapire il protagonista del libro, Alonso Quijano, un nobiluomo della regione della Mancia, in Spagna centrale, con la passione per i romanzi cavallereschi: pagine di duelli e amori che lo stravolgono nell’animo, fino a far divenire lui stesso un cavaliere errante, spinto dalla necessità di una crociata contro il male che dilaga nel mondo e contro le cose sbagliate che ne condizionando la sopravvivenza.
Lui parte e viaggia, finché – è uno degli episodi più noti del romanzo – non incrocia alcuni mulini, che scambia per dei giganti enormi con lunghe braccia e intenzioni assai cattive; e nonostante il fedele scudiero lo avvisi ripetutamente che sono in realtà mulini a vento, non c’è nulla da fare, il nobiluomo dà retta al suo cuore e si fa travolgere dalla sua immaginazione, e parte lancia in resta per abbatterli, finendo però poi rovinosamente a terra.
La consulenza direzionale nel settore del reputation management: parole al vento?
Ecco come mi sento, come ci sentiamo, da tempo ormai, coloro i quali tra noi – eterni Don Chisciotte – continuano a ripetere come un mantra quei “fondamentali” del reputation management ai quali non solo crediamo profondamente, ma che sono confortati da intere biblioteche di letteratura scientifica e da migliaia di case-study pratici, e che altrettanto ritualmente sono violati dai brand e da chi, come top manager, quelle aziende le dirige.
Sulla necessità di promuovere un business dal volto umano si pronunciò molto tempo fa l’economista italiano Antonio Genovesi, che in pieno Illuminismo predicava inascoltato sulla costruzione necessaria di una “economia civile”, ovvero finalizzata alla responsabile generazione di felicità per le persone, sostenibile in quanto capace di coniugare crescita economica ed equità sociale, all’insegna di parole chiave come reciprocità, fiducia e mutuo vantaggio. Oggi, tre secoli dopo, le sue parole paiono risuonare come una eco nel vuoto.
Capisco che quello di Genovesi potrebbe suonare alle orecchie dei più un approccio troppo distante ed astratto, ma per attualizzare questi concetti ai tempi moderni ci è venuto in soccorso già da tempo Robert Eccless, ad Harvard, dimostrando che introdurre preoccupazioni etiche nel business fa guadagnare più soldi: la sua bella ricerca – durata 18 lunghissimi anni e terminata nell’ormai lontano 2012 – ha generato risultati inequivoci, spostando il focus sulla sostenibilità e sul modo corretto di fare le cose da una dimensione “morale” a una dimensione legata al maggior profitto, conseguenza diretta dell’etica. Un profitto dal volto umano che dovrebbe mettere d’accordo una volta per tutte gli interessi degli azionisti con il futuro del Pianeta, perché se facendo le cose per bene si aumentano i dividendi, il perché si continui a farle in “malo modo” resta un mistero insondabile, un comportamento disfunzionale e inefficace, che restringe la licenza di operare delle aziende, riduce i guadagni, distrugge valore, e quindi grida vendetta.
E dopo di lui, sono seguite altre numerosissime evidenze, riflessioni, prove, e discorsi continui, ad esempio, sulla necessità di mitigazione del rischio e di gestione dell’impatto delle crisi, a difesa di quel bene preziosissimo che è la reputazione, universalmente riconosciuto come il primo e più prezioso degli asset intangibili di qualunque organizzazione economica. Ultimo in ordine di tempo il bellissimo lavoro[1] pubblicato dall’Ordine dei Dottori Commercialisti e dei Revisori Contabili di Torino, e per essere più precisi dalla Commissione di Studio Governance e Finanza, coordinata dal dott. Paolo Vernero, documento accurato e ponderoso, modernissimo per contenuto e anche per stile, presentato, nella sua seconda edizione ampliata, pochi giorni fa a Torino presso l’aulica sede dell’Ordine, con prolusione del Presidente Dott. Luca Asvisio, che una volta di più ha intelligentemente ricordato – con il conforto di un’imponente mole di dati e riferimenti legislativi e bibliografici – che porre attenzione alla sostenibilità non significa far contenta Greta Thunberg, bensì, casomai, porre le condizioni per rendere il business più redditizio e resiliente nel tempo, se è vero che – come ricorda spesso Vernero – “un’azienda non sostenibile al tempo t, avrà maggiori probabilità di perdere la continuità aziendale al tempo t+1”[2].
Sempre il mondo della rendicontazione contabile si è interrogato a più riprese sulle modalità di computazione e riporto in bilancio dei cosiddetti intangible, tra i quali la reputazione e in generale i fattori ESG sono certamente, insieme ai brevetti, la voce più rilevante sotto il profilo finanziario. Ormai la letteratura, e gli standard internazionali, sono totalmente concordi sul punto, come conferma un recente lavoro sempre di Vernero e altri: “le risorse immateriali essenziali – ovvero quelle che, ancorché prive di consistenza fisica, condizionano il modello dell’impresa e costituiscono una fonte di valore per essa – (…) integrano i presupposti per l’iscrizione in bilancio”[3]. D’altra parte, il valore di un brand – ad esempio il prezzo che si manifesta nel caso di operazioni di fusione e acquisizione – si allontana sempre più spesso, aggiungono gli esperti commercialisti, dal suo valore contabile, ed è opinione consolidata tra gli addetti ai lavori che la differenza sia in larga parte imputabile, appunto, agli intangibili, il cui peso è concretamente condizionato dalle strategie di sostenibilità dell’azienda, non certo solamente sotto il profilo ambientale, ma anche sotto quello sociale e di governance.
Ma a nulla – o a pochissimo – sono servite tutte queste riflessioni e avanzamenti nella dottrina: così tanti sono gli esempi di ottusità diffusa da gettarci sconsolati nella disperazione più nera. Vediamone qualcuno, come al solito senza fare nomi…
Mundys – Atlantia: alti dirigenti in carcere, diciamolo
Per evitare che il rebranding ottenga il suo scopo, è bene ricordare che una volta si chiamava Autostrade S.p.a., e che fa riferimento alla famiglia Benetton, la stessa che esattamente 24 ore dopo il crollo del Ponte Morandi (43 morti e centinaia di feriti) era a festeggiare ferragosto a Cortina con gli amici. Non un post di condoglianze alle famiglie distrutte nel primo giorno del disastro, perché – dicono i ben informati – il loro avvocato gli consigliò (…)
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