La valutazione dell’impatto sociale (VIS) delle attività svolte da imprese sociali e delle misure di inclusione sociale è un argomento che sta diventando sempre più presente nel dibattito europeo. Anche a livello nazionale è un tema già da tempo trattato e che è destinato a diventare sempre più rilevante nei prossimi anni.
Nella riforma del Terzo settore, la valutazione dell’impatto sociale si pone come obbligo per le realtà che partecipano a bandi pubblici, nazionali e internazionali e per gli enti con entrate superiori al milione di euro.
Misurare il cambiamento
Al Terzo settore non viene più richiesta solo una puntuale rendicontazione: “Ora il tema dell’efficacia è diventato discriminante… Non basta dimostrarsi efficienti nella spesa, occorre essere efficaci, cioè misurare il cambiamento prodotto dalle azioni poste in essere” (Stefania Aoi, La Repubblica 28/5/2018).
Come recita il Codice del Terzo settore (D.Lgs 3 luglio 2017, n. 117 art. 7 comma 3) infatti “per valutazione dell’impatto sociale si intende la valutazione qualitativa e quantitativa, sul breve, medio e lungo periodo, degli effetti delle attività svolte sulla comunità di riferimento rispetto all’obiettivo individuato”.
Ciò che è richiesto, in estrema sintesi, è il rapporto tra 1€ investito e il valore sociale prodotto. Un ottimo esempio di questo genere di valutazione dell’Impatto sociale prodotto si trova nell’approccio della Associazione Banco Alimentare della Lombardia “Danilo Fossati” Onlus: nel Bilancio sociale viene esplicitato che a fronte di 1€ speso per la gestione dell’associazione, la stessa produce un valore sociale di 32€ di cibo distribuito[1].
Dimostrare la propria forza
Il perché valutare è chiaro: si tratta di una questione di compliance rispetto alla sopra citata Riforma del Terzo settore.
Il tema che rimane aperto e discusso è come valutare; acclarato, infatti, che valutare e rendicontare sia necessario, resta da capire quale strumento utilizzare.
Tra gli strumenti maggiormente utilizzati e dibattuti a livello internazionale c’è senz’altro lo SROI (Ritorno sociale sull’investimento) uno strumento di valutazione stimolante ma che presenta una serie di limiti, che lo rendono un sistema valido per alcuni ambiti (il welfare aziendale che ha ricadute sociali, come ad esempio le assicurazioni sanitarie per i dipendenti, e alcune attività di imprese sociali), mentre sembra inadeguato per altri perché prevede, “la quantificazione di valori di mercato che certe attività non ammettono”[2].
Per tale motivo, le pubblicazioni in Italia sul tema dello SROI vertono prevalentemente sul metodo e le modalità di implementazione. Un’ottima definizione di SROI è quella fornita da Chiara Crepaldi: “…una metodologia di valutazione di impatto che ha quale obiettivo non quello di giudicare una organizzazione, bensì di capire, misurare e comunicare il valore sociale creato da una specifica azione/attività realizzata.” Un’analisi SROI permette di quantificare l’impatto sociale creato dall’intervento promosso dall’organizzazione, valutare l’efficienza nell’utilizzo delle risorse disponibili, l’efficacia dell’intervento al netto degli effetti negativi e inattesi dell’azione prodotta: come tale è anche un valido strumento per prevenire e mitigare gli impatti negativi dell’azione stessa.
Il percorso prevede di:
1) individuare chiaramente il progetto/l’intervento da valutare,
2) mapparne, attraverso il coinvolgimento di tutti gli stakeholders rilevanti, gli outcomes (i risultati prodotti),
3) attribuendo a ciascuno di essi uno specifico valore monetario, da approssimare attraverso stime, per
4) arrivare, al termine del percorso, a valutare l’impatto complessivo prodotto sintetizzato attraverso un indice definibile nei seguenti termini: per ogni euro investito quanto valore sociale ho prodotto?»[3]
L’etimologia della parola valutazione ci consente di desumere l’opportunità, nascosta dietro quello che ci appare un onere (la responsabilità di cercare un metodo, implementare un processo, scegliere uno strumento nonché decidere come implementarlo), sia esso di compliance o di competitività. Il termine “valutazione” deriva dall’antico valuto, risalente al latino valitusche, che significa “essere forte”. Valutarsi, dunque, significa dimostrare la propria forza.
di Roberta Culella
Fondatore di QConsulting,
Esperta di sviluppo sostenibile, economia circolare
[1] https://www.bancoalimentare.it/it/lombardia/trasparenza-creazione-del-valore
[2] Stefano Zamagni, articolo “La ratio delle linee guida del governo sulla valutazione dell’impatto ambientale” pubblicato su Vita, aprile 2018.
[3] Chiara Crepaldi, “La valutazione dell’impatto sociale nelle esperienze europee” pubblicato su welforum.it il 24 luglio 2018