Il mercato dei provider di welfare aziendale, ovvero degli aggregatori di servizi che utilizzano interfacce web per consentire la libera scelta da parte dei lavoratori, è in grande evoluzione. Molti nuovi soggetti si sono affacciati in pochi anni su questo mercato. A partire dalla Legge di Stabilità 2016 si è avviata una robusta riflessione interna anche tra le cooperative e le imprese sociali, soggetti storicamente abituati a far conto soprattutto su risorse pubbliche divenute nel tempo sempre meno disponibili a fronte dei con tenimenti di spesa che soprattutto il welfare locale ha dovuto subire.
L’affacciarsi del Terzo settore più strutturato su questi mercati rappresenta un’evoluzione piuttosto naturale, per un mondo che per cultura e capillarità dei servizi erogati rappresenta da alcuni decenni uno dei cuori del sistema di welfare italiano.
La figura del welfare manager
Il soggetto che con maggior decisione si è avventurato nel campo del welfare aziendale è sicuramente il Consorzio CGM (Consorzio Gino Mattarelli), leader italiano del segmento. Nel 2017 ha lanciato la propria sfida al mercato dei provider, attraverso un accordo di reselling per l’utilizzo della tecnologia del provider Jointly e contemporaneamente formando una specifica professionalità interna, quella del welfare manager, per evitare di dover acquisire figure professionali provenienti dal profit: forse un limite, perché storicamente si discute sulla necessità di ibridazioni profit-non profit e di contaminazione di logiche gestionali.
Più di recente, rispondendo indirettamente a una delle sottolineature critiche che abbiamo visto essere state avanzate dal Presidente del CNEL, Tiziano Treu, Consorzio CGM ha proposto inoltre la definizione di una prassi di riferimento UNI-Ente Nazionale di Normazione (UNI/PdR 58: 2019), identificando una serie di requisiti per la qualità dei fornitori di servizi alla persona nel welfare aziendale.
Là dove i provider profit non arrivano
L’esperienza di CGM è certamente di rilievo, poiché tenta di porre in agenda alcuni temi centrali rispetto ai quali il sistema dei provider di natura profit non ha mostrato fin qui grande interesse: quello della qualità dei servizi erogati – in un mercato in cui le quote maggioritarie di finanziamento sembrano andare in direzione dei rimborsi o di forme di sostegno alla capacità di spesa del lavoratore –, e al contempo quello della promozione diretta o indiretta di forme reticolate a livello territoriale, capaci di intercettare una domanda, ancora da comprendere nelle sue dinamiche, di servizi a chilometro zero (mentre la logica dei provider profit tende a orientare maggiormente le scelte di spesa dei lavoratori su grandi operatori e multinazionali).
Così come può essere interessante l’introduzione di logiche tipiche del Terzo settore come quelle del case management, per ridurre le asimmetrie informative che inevitabilmente i lavoratori sperimentano di fronte alla scelta tra una pluralità di beni, limite che si aggrava con le dinamiche introdotte dalla digitalizzazione attraverso i “portali” gestiti dai provider.
La vera sfida è legata insomma alla capacità di questo mondo di saper giocare fino in fondo la partita del welfare aziendale in un settore in cui la concorrenza del mondo profit è elevatissima. Se la sapranno vincere, probabilmente ne beneficerà l’intero segmento del welfare aziendale, percorso molto spesso da dinamiche di commercializzazione che non sempre appaiono adeguate ai bisogni cui dovrebbero fornire risposta.
di Luca Pesenti
Ricercatore di Sociologia generale
nella Facoltà di Scienze politiche e sociali
dell’Università Cattolica di Milano