Da almeno cinque anni si sente spesso parlare di innovazione del materiale, in particolare nel campo della moda. Quest’ultima è partita in ritardo rispetto ad altri settori ugualmente impattanti dal punto di vista sociale – si veda il tema dei diritti umani nella catena di fornitura – e ambientale. Va però riconosciuto che ha poi iniziato a correre a una velocità elevata, producendo primi risultati veramente interessanti in ottica di riciclo e riutilizzo.
Il settore di per sé è soggetto alla stagionalità, ma il Covid-19 ha dato una forte spinta a ripensare tutti i processi e la vendita (meno consumistica) in ottica di miglior qualità e maggior durevolezza dei prodotti del fashion.
Questo appello è stato portato avanti da vari stilisti autorevoli – ad esempio Giorgio Armani – ma anche da chi coordina tutti gli attori coinvolti come Carlo Capasa, presidente della Camera della moda italiana, che di recente al Forum “La moda si fa verde”, organizzato da Green&Blue di “La Repubblica”, ha spiegato come il comparto, il secondo d’Italia, si stia riorganizzando in ottica più green per ridurre la propria impronta ecologica: dai consumi di acqua alle emissioni di CO2 e alla seconda vita dei capi.
I primi a chiamare in causa la sostenibilità nella moda sono i consumatori, specialmente a partire dai Millenials (i nati tra il 1981 e il 1996) fino alla Gen Z, che segue con interesse l’attenzione all’ambiente in ciò che mangia e in ciò che indossa. Nel territorio per eccellenza dell’industria tessile, la Toscana, fa capolino una novità. Il Museo del Tessuto di Prato, città nota per gli addetti al mestiere e non, è nata “Textile Library”, una sezione dedicata all’economia circolare e alla moda sostenibile. Per gli appassionati le esposizioni sono ricche: tessuti archeologici anche d’Oriente, abiti e accessori, macchinari, figurini di moda e riviste del secolo scorso e un’area contemporanea.
In questa prestigiosa “materio teca” uno spazio importante è affidato alla sostenibilità, intesa come innovazione chiave. Sono molte le aziende che investono fortemente nell’R&D focalizzandosi su aspetti di riutilizzo. Non a caso in questa cornice è possibile vedere manufatti in pelle realizzata dagli scarti della mela, dalle foglie del cactus messicano, scarpe di cellulosa estratta da foglie di ananas, tessuti in cashmere e lana riciclati, materiali in lino e cotone biologici, fibre in nylon riciclato o in poliestere biodegradabile in acqua marina e maglieria in denim riciclato.
Il panorama del lusso e dello sportswear
I funghi non sono buoni solo nel risotto ma vengono riscoperti anche per borse e scarpe. La pelle vegetale derivata dalla lavorazione dei miceli – apparato vegetativo dei funghi formato da un intreccio di filamenti – fanno breccia nel cuore di un brand del lusso francese, Hermès, e di Adidas, marchio sportivo noto globalmente.
Il materiale nasce da ricerche durate tre anni ed effettuate da un’azienda californiana, MycoWorks, che ha creato la tecnologia “Fine Mycelium”. Da quest’ultima viene realizzato Sylvania, il tessuto tinto e rifinito dall’azienda francese che lo rende adatto alla creazione di una borsa storica. Anche Bolt Threads, sempre statunitense, ha brevettato “Mylo”, particolare tessuto rivato dai funghi scelto da Adidas per il lancio di un nuovo modello di scarpe, delle quali non è ancora nota la data di uscita e il prezzo.
La Toscana, già citata in precedenza, non è da meno: a Montelupo Fiorentino, Grado Zero, già specializzata nei materiali speciali, ha inventato “Muskin”, ricavato dal fungo parassita Phellinus ellipsoideus tipico delle foreste subtropicali, approvato da PETA e da Animalfree.info.
Non ci resta che aspettare con curiosità quale prossimo vegetale verrà utilizzato per innovare in maniera responsabile!
di Ylenia Esther Yashar
(da CSRoggi Magazine, anno 6, n.2, Marzo/Aprile 2021, pag. 70)