La Cartiera è il laboratorio emiliano che con gli scarti dei grandi marchi dà lavoro a richiedenti asilo e rifugiati Difendere il Made in Italy contaminandolo. Preservarlo e tramandarlo nello scambio tra un mastro pellettiere romagnolo con 35 anni di esperienza e giovani richiedenti asilo o rifugiati provenienti dall’Africa e dall’Asia. Dare così all’accoglienza un senso compiuto. E nuova vita non solo alle pelli scartate dai grandi marchi ma anche ai giovani che le lavorano. Con un amore istintivo e allo stesso tempo professionale. Tutto concentrato in un prodotto esclusivo per fattura, provenienza e qualità. «Cartiera» è il laboratorio di Lama di Reno (una frazione di Marzabotto, in provincia di Bologna) di moda etica a cui si rivolgono grandi case per avere pellame proveniente dai due continenti, lavorato in modo artigiano e sostenibile, evitando gli sprechi e il loro impatto sull’ambiente. Ma capace anche di realizzare il prodotto finito, che le aziende acquistano.

«La nostra mission è la sostenibilità sociale ma con uno sguardo internazionale. Cooperiamo con i Paesi d’origine e li aiutiamo a sviluppare le loro economie»: a spiegarlo è Andrea Marchesini Reggiani, presidente di Abantu cioè della cooperativa fondatrice, assieme a Lai Momo, in cui è confluita la Cartiera. La scintilla scocca alle sfilate di Pitti Uomo quando Ethical fashion iniziative – programma di moda sostenibile delle Nazioni Unite – contatta Lai Momo, coop impegnata da 25 anni nell’accoglienza, alla ricerca di modelli per una sfilata di artisti africani emergenti. E cinque richiedenti asilo salgono in passerella. È il 2017: il primo corso di formazione parte sulla scia dell’eco mediatico di quella esperienza.

Traguardo
Il passo per la startup di impresa sociale è brevissimo. Borse, zaini, oggetti di arredo, in pelle ma anche tessuto. Fendi, Lamborghini e Ikea sono nella rete delle partnership attivate finora. «Con i nostri modellisti – specifica la responsabile operativa Tatiana Di Federico – possiamo anche sviluppare articoli personalizzati». Dal 2018 a oggi sei contratti a tempo indeterminato: «Un traguardo importantissimo. L’idea è poter ricucire le ferite del passato attraverso il lavoro sartoriale». Dieci dipendenti, solo per ora: ragazzi da Senegal, Burkina Faso, Costa D’Avorio, Bangladesh, sotto i 30 anni e ora con un punto fermo. Bassirou, 29enne del Burkina Faso, è stato il primo e ora è socio lavoratore. Vuole iniziare l’università per diventare modellista e da lui prende il nome «Bassi bag», la collezione realizzata con la canadese/americana Goodee, tra i «must have» del New York Times. C’era chi aveva già esperienze in sartoria e chi in altri settori, intanto imparano il mestiere sotto la guida di un maestro di Faenza, l’artigiano Francesco Banzola: «Il nostro Made in Italy guarda al futuro, al lavoro come strumento per l’inserimento delle persone in condizioni di svantaggio. Portando le nostre competenze in una rete globale». Anche grazie ai fondi dell’aiuto europeo allo sviluppo. «Ci hanno scelto come riferimento in Europa, integreremo il lavoro fatto qua e nel resto del mondo», dice Marchesini Reggiani.

Cinquantasei giorni di chiusura durante il lockdown: Collezione 56 nasce proprio da lì. «Alla riapertura – è di nuovo Tatiana Di Federico a parlare – abbiamo recuperato molte commesse perse». E lanciato una campagna social, «Il lavoro conta», per il lavoro regolare. I 100mila euro di fatturato del 2018 sono stati raddoppiati l’anno scorso, la sfida per il futuro «è nelle nostre mani in tutti i sensi». Qualità è la parola chiave per «dare gambe vere e importanti, con un progetto che porti il nostro modello ad altre realtà a livello nazionale», indica la via il presidente. L’obiettivo è «trasferire la nostra competenza acquisita e intanto rafforzare la riconoscibilità del marchio nel consumatore diretto». Arrivare così a «un prodotto comperato non solo per la sua mission sociale ma anche per il piacere che dà».

Memoria
Aumentando la capacità di recupero pelli «vorremmo fare di Bologna un hub» e inseguire – prosegue il presidente – nove obiettivi dell’agenda 2030 dell’Onu sullo sviluppo sostenibile. Il territorio non è secondario in questa storia. Lo stabilimento sorge sulle ceneri della Cartiera di Lama di Reno, frazione di Marzabotto sull’Appennino bolognese, luogo simbolo della Resistenza e della memoria. Una storia, quella della Cartiera, che riporta al 1700 e fino allo splendore degli Anni 50 del Novecento, sotto la guida del Gruppo Rizzoli. Ciclo interrotto, dopo i passaggi di mano, nel Duemila. Una chiusura che aveva tolto alla zona popolazione ed economia. Anche in questo caso è una nuova vita.

di Luca Muleo

 (da Buone Notizie – L’impresa del bene del 3 novembre 2020)

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