La nomina dei componenti della task force deputata a progettare la tanto attesa «fase 2» ci rilancia verso il futuro e apre una fase nuova: una stagione per certi versi molto più complessa rispetto alla precedente. Per alcuni «la transizione» dovrà essere breve e prodromica ad una veloce apertura (questa è la tesi di quelli che vedono nitidamente la luce in fondo al tunnel), per altri invece la transizione sarà lunga e richiederà soluzioni che condizioneranno in maniera radicale la nostra convivenza (questa è la tesi di coloro che invece propongono di arredare il tunnel). Non sappiamo con certezza quale sia la strategia migliore, ma non possiamo però non riconoscere la straordinarietà del momento, di uno shock che non avevamo calcolato, ma che abbiamo contributo a generare: come ha ricordato Papa Francesco: «Pensavamo di rimanere sani, in un mondo malato».

Per questo motivo, le scelte connesse a questa nuova fase portano dentro di sé la responsabilità di costruire una «normalità trasformata» piuttosto che contribuire ad un ritorno allo «status quo». Da più parti sentiamo dire «nulla sarà più come prima», ma poi son molti i segnali che fanno intuire come in nome di un «dovuto realismo» (sic!) si provi a replicare l’esistente. Disegnare un futuro buono per tutti richiede la consapevolezza che il “durante” di questa fase, sia intensamente vissuto come l’inizio del “dopo”. Il vero rischio in questi frangenti è infatti quello di fare scelte che vadano unicamente alla ricerca di un “giusto” equilibrio fra la legittima richiesta di «liberare il mercato» e la «sicurezza dei cittadini».

A ben vedere però tali ricette non si distinguono molto le une dalle altre, poiché la somma dei costi (sociali o economici) per realizzarle è sostanzialmente uguale: diversa è la modalità con cui questi vengono ripartiti (in un caso sull’economia, nell’altro sulla salute). Disegnare la «fase 2» non può certamente prescindere da normative che introducono vincoli, ma non può limitarsi a proporre un mix di soluzioni fra gli interessi delle imprese e quelli della cura. Occorre superare la trappola di questi trade off e aprirsi ad una visione trasformativa capace di abbassare la frontiera delle nostre scelte, dando più spazio al capitale sociale, al capitale umano e al capitale civile.

La definizione di un necessario «protocollo» che definisca i livelli di sicurezza nel lavoro, non dovrà perciò appena elencare procedure e requisiti ma dovrà essere l’occasione per ridisegnare i più agili modelli organizzativi, migliorando l’armonia con i tempi di vita, senza sacrificare la produttività, anzi con l’obiettivo di aumentarla. Ci troviamo di fronte alla più grande operazione di change management nella storia delle organizzazioni e non possiamo perdere l’opportunità di rendere più «sociali e inclusive» le nostre imprese.

Serve quindi il coraggio, oltre che l’intelligenza, di andare oltre il modello di organizzazione del lavoro pensato all’epoca della seconda rivoluzione industriale. Proprio perché il lavoro è trasformativo della persona, il processo attraverso il quale vengono prodotti beni e servizi acquista valenza morale, non è qualcosa di neutrale.

In altri termini, il luogo di lavoro non è semplicemente il luogo in cui certi input vengono trasformati in output, le relazioni che si attivano non sono solo processi e regole misurate da risultati: il lavoro infatti è la modalità con cui si forma (o si trasforma) il carattere del lavoratore. La creazione di valore ha perciò bisogno di persone, relazioni e significati. Possiamo cioè organizzare un distanziamento «fisico» per un po’ di tempo, ma non possiamo accettare un lavoro fondato sul «distanziamento sociale» (proporrei di abolire tale dicitura). Non potrà esserci «sicurezza» senza «cura». Una normalità trasformata va costruita su un rinnovato senso del lavoro e su una economia intenzionalmente più sociale.

Come ci insegnano le esperienze di questi giorni, sono le motivazioni la chiave principale per la generazione di valore; le conoscenze tacite sono la risorsa più rilevante per competere e innovare. Siamo ben consapevoli che dovranno essere ridisegnati gli spazi di lavoro, i layout dei luoghi della cultura e il design dei servizi alla persona, ma occorre una grammatica nuova, non certo quella che ha come moralità l’efficienza. La sfida è quella di aumentare la produttività aumentando il tasso di felicità delle organizzazioni. Nel post coronavirus economia, welfare e cultura devono essere ricomposti, attraverso politiche e strategie che coltivino fin dall’inizio percorsi convergenti. Occorre fare su serio, non basta più misurare il «Bene» del valore prodotto, è arrivato il tempo di dare Valore al «Bene» che si vuol generare.

di Paolo Venturi
Direttore Aiccon

(da Buone Notizie – L’impresa del bene del 21 aprile 2020)

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