Il capitalismo sta diventando insostenibile? È una domanda che molti si pongono a fronte del cambiamento climatico, del degrado ambientale, delle crescenti diseguaglianze, di forme irresponsabili di consumismo e di spreco. Si tratta però di una domanda mal posta: è troppo generale. Mercato, concorrenza, proprietà privata non hanno nulla di intrinsecamente insostenibile. Del resto non è che l’intervento pubblico garantisca in quanto tale la sostenibilità, per non parlare dell’economia di piano di marca «socialista» (Chemobyl docet). Tutto dipende da regole, incentivi, e cultura.

La sfera intermedia

William Beveridge, l’architetto del welfare britannico, diceva che la ricerca del profitto è un cattivo padrone ma un ottimo servitore. Una massima che vale anche per la logica di base delle politiche statali: la ricerca del consenso. Anche questa è un ottimo «servitore» della democrazia: costringe i governanti a tenere in conto le preferenze dei governati. Ma se spadroneggia nelle decisioni politiche e prevale sui criteri di efficienza, efficacia ed equità produce gravi danni. Soprattutto quando il settore pubblico assorbe il 40 per cento del Pii. Fra Stato e mercato esiste una terza sfera intermedia. È la società civile. L’aggettivo ha un significato descrittivo (le interazioni orizzontali fra cittadini) ma anche normativo: è in questa sfera che nascono principi e standard di valore che orientano i nostri comportamenti. L’ambito in cui nascono e si radicano gli orientamenti culturali, compresi quelli orientati ai temi della sostenibilità. Il «fenomeno Greta» è nato in seno alla società civile scandinava, per poi estendersi a macchia d’olio in altri Paesi. Una volta rinchiuse nei confini nazionali, le società civili possono oggi entrare in contatto diretto grazie alle nuove forme di comunicazione.

I numeri

La sfera intermedia svolge anche un importante ruolo economico. In Europa ci sono circa due milioni di imprese attive nell’economia sociale, che rappresentano il io per cento del totale e danno lavoro a u milioni di persone: il 6 per cento dei lavoratori dipendenti Ue. Al di là delle svariate forme giuridiche, il tratto comune di queste imprese è che non distribuiscono profitti. Attenzione: non li distribuiscono, ma possono farli per reinvestirli. E per farli devono essere efficienti, cioè usare il «servitore» mercato. Molte sono «imprese sociali» in senso stretto, perseguono cioè obiettivi nel settore del welfare e dell’ambiente. Per questo molti sono convinti che l’economia sociale si collochi all’avanguardia sul fronte della sostenibilità.

Le imprese sociali hanno due caratteristiche che le collegano direttamente all’agenda dei Sustainable development goals (Sdg). La prima è che, non ricercando il profitto in quanto tale, queste organizzazioni sono molto aperte alla ridefinizione dei propri obiettivi in relazione al dibattito sulle sfide del futuro. Spesso si finanziano grazie a fondi espressamente dedicati al raggiungimento degli Sdg: lotta alla povertà, sviluppo locale, produzione e consumi responsabili, difesa dell’ambiente e contrasto ai fattori che determinano il cambiamento climatico. In secondo luogo la loro struttura e la loro modalità di funzionamento sono ispirate a logiche partecipative e inclusive nonché al principio della partnership, della formazioni di reti: modalità di azione espressamente raccomandate dal diciassettesimo obiettivo Sdg. Gli attori dell’economia sociale sono particolarmente attivi nella promozione di una delle chiavi di volta della sostenibilità: l’economia circolare.

Circolarità

Si tratta di un nuovo modo di impostare il ciclo «produzione-consumo-smaltimento» in risposta alla pressione crescente che le modalità tradizionali esercitano sulle risorse disponibili, l’ambiente e il clima. L’economia «lineare» si è tradizionalmente basata sullo sfruttamento intensivo di risorse, con alti tassi di «rifiuti» da smaltire. Nell’Unione europea ogni anno si usano quasi 15 tonnellate di materiali a persona, mentre ogni cittadino Ue genera ima media di oltre 4,5 tonnellate di rifiuti l’anno, di cui quasi la metà è smaltita nelle discariche. L’economia circolare si sforza invece di minimizzare i rifiuti attraverso il riciclo (riutilizzo, aggiustamento, rinnovo) dei materiali e dei prodotti esistenti. La promozione del «circolo» necessita naturalmente di interventi ex ante: i prodotti vanno progettati appositamente per inserirsi nei cicli dei materiali, in modo che i rifiuti residui siano prossimi allo zero. La transizione verso un’economia circolare richiede cambiamenti culturali a livello micro, così come l’organizzazione pratica della circolarità, attraverso canali di condivisione nella sfera della distribuzione, del consumo, della gestione del surplus individuale.

Transizione

È su questo fronte che le imprese sociali possono dare (stanno già dando) un contributo prezioso e pressoché esclusivo. Per quanto vivace e seriamente impegnata, l’economia sociale non può ovviamente essere sovraccaricata di compiti e aspettative. L’agenda Sdg richiede infatti il coinvolgimento delle istituzioni pubbliche e delle imprese private. Quanto alle prime, pur con alti e bassi, occorre riconoscere che sensibilità, impegni e interventi concreti sono molto cresciuti negli ultimi anni. L’Ue ha giocato un ruolo di primo piano. La promozione della transizione verde è peraltro una delle direttrici di marcia dei fondi messi a disposizione dal piano Next Generation Eu. Nel privato sono soprattutto le istituzioni finanziarie a guidare il cambiamento. Il paradigma della «finanza sostenibile» sta orientando sempre di più la cultura e le decisioni delle banche in direzione della sostenibilità. S’intravedono segnali di uno sviluppo promettente: un rinnovato intreccio fra dimensione commerciale e dimensione sociale, connaturato alla tradizione bancaria europea. Potrebbe così aprirsi la strada a un nuovo modello di «capitalismo liberal-democratico ed eco-sociale», su scala pan-europea, capace di affrontare la globalizzazione senza rinunciare a quegli obiettivi di «piena occupazione, progresso sociale, tutela e qualità dell’ambiente» che figurano nel preambolo del Trattato di Lisbona.

Gli ostacoli

La strada è irta di ostacoli politici. Il principale è l’enfasi sul corto periodo: un lascito di quello shareholder capitalism esclusivamente orientato alla massimizzazione di valore per gli azionisti, da un lato, e di quel modello di democrazia dei partiti, dominato dalla ricerca quotidiana del consenso, affermatosi negli ultimi decenni. Gli studiosi la chiamano «tragedia dell’orizzonte corto», una sindrome che ci imprigiona nello status quo. È questo il nemico più insidioso. Nel suo piccolo, ma con grande vigore, l’economia sociale può aiutarci a combatterlo.

 di Maurizio Ferrera

(da Buone Notizie – L’impresa del bene del 22 settembre 2020)

 

 

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