(da corriere.it del 28 agosto 2018)

La Terra sta bruciando. E l’umanità sta, probabilmente, perdendo l’unica battaglia per la sopravvivenza che abbia mai cercato di combattere unita. È questa la conclusione alla quale arrivano gli studi più recenti sul cambiamento climatico che sono stati pubblicati dalla rivista scientifica «Nature» e che ricordano che il caldo di questo mese non è eccezionale. Entro il 2030, il numero di giornate con temperatura superiore ai 35 gradi (il limite oltre il quale lavorare o studiare diventa difficile) aumenterà a tal punto da rendere non più abitabili vaste aree del Mediterraneo e dell’Asia del Sud. Con effetti su fenomeni come le migrazioni che faranno impallidire il ricordo degli sbarchi.

Dodici anni. Tra soli dodici anni potremmo aver sfondato la soglia dei 2 gradi di incremento nelle temperature medie rispetto all’inizio della rivoluzione industriale. Soglia oltre la quale c’è il piano inclinato di una mutazione di cui non avremo più controllo.
Dodici anni che, tuttavia, sembrano ancora troppi per un Occidente che — tradendo il suo «spirito» – sembra aver compresso i propri orizzonti temporali ad una quotidianità mediocre. Un futuro che ci sta già arrivando addosso, visto che incendi come quelli che hanno fatto centinaia di vittime in California, Grecia e Siberia, sono resi due volte più probabili — secondo uno studio di miei colleghi all’Istituto per il cambiamento ambientale dell’Università di Oxford — dall’aumento delle temperature.

Stiamo perdendo la battaglia. Del resto anche se le Nazioni della Terra rispettassero gli impegni presi a Parigi nel 2015, anche se Trump non avesse annunciato di voler ritirare l’adesione degli Stati Uniti a quell’accordo, ci ritroveremmo, comunque, a liberare in atmosfera, nel 2025, un volume di emissioni che è, secondo l’Onu, del 20% superiore a quello che l’umanità può sopportare.

A questo punto rimangono solo tre strade da percorrere. Tutte radicali e sapendo che, in fondo, Trump non ha tutti i torti quando insiste sull’inadeguatezza di un multilateralismo che produce molte conferenze e pochi risultati.
La prima è avere il coraggio di rompere le liturgie di accordi che necessitano unanimità sfibranti e svuotanti. Se c’è un gruppo di Stati che, in maniera più seria, vogliono «salvare il mondo» avendo capito che ciò può essere una grande opportunità strategica ed economica, che essi formino una coalizione di «volenterosi». Con il coraggio anche di sanzionare chi è fuori dal gioco. Tra di essi accanto all’Europa ci sarebbe la Cina che ha conquistato, con velocità e intensità inconcepibili altrove, la leadership nella produzione di rinnovabili e di automobili elettriche. E dovrà esserci l’India che contribuisce più di qualsiasi altro Paese all’aumento delle emissioni per la sua vorace domanda di energia e dipendenza dal carbone.

La seconda possibilità è quella della scienza che con operazioni straordinarie sarà presto in grado di manipolare il clima abbassando la temperatura. Con tecnologie che succhiano carbone dall’atmosfera (emissioni negative); ma anche con la geo-ingegneria che progetta di schermare le radiazioni solari. Una medicina che può avere, però, come argomenta Marco Grasso della Bicocca, gli effetti collaterali di qualsiasi soluzione che interviene solo sui sintomi e non sulle cause della malattia.
La terza strada è cambiare i contraenti degli accordi per arrivare più vicini ai «luoghi» dove il problema si crea e dove, dunque, esso si può risolvere. Un’alleanza transnazionale tra le grandi città del mondo aggiungerebbe creatività e concretezza. Reti di metropoli globali già esistono (come la C40) e, però, la novità è dare alle città risorse, autonomia, possibilità di prendersi impegni reciproci, di costringere chi ha prodotto il disastro a contribuire finanziariamente all’adattamento.

Del resto tra governi centrali e città esiste una naturale divisione di competenze. Gli Stati agiscono — più efficacemente — sulle grandi imprese e sulle grandi infrastrutture. Le comunità locali devono, invece, guidare il cambiamento verso un futuro di mobilità condivisa e automobili a guida autonoma, incoraggiare la grande distribuzione ad una logistica con meno sprechi, sviluppare case e quartieri che diventano i nodi delle reti energetiche del ventunesimo secolo. E soprattutto, sono le città, l’ambiente dove sperimentare gli incentivi giusti per orientare le famiglie e gli individui a cambiare i propri comportamenti.
La battaglia del clima offre, in realtà, un’opportunità straordinaria: quella di rendere urgente riscoprire che siamo tutti parte di una vicenda che attraversa i confini tra Paesi e generazioni. Per vincerla, un Occidente tecnologicamente mai così evoluto deve, però, scuotersi dall’inerzia che lo porta ad osservare impotente una complessità che va risolta.

di Francesco Grillo

(da corriere.it del 24 agosto 2018)

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